Quest’anno per la prima volta Filmmaker ha proposto due concorsi, affiancando alla tradizionale competizione internazionale, una sezione dedicata a film italiani di diverso formato. Un confronto di linguaggi e storie, dove la durata e il genere non hanno influenzato la scelta dei selezionatori. Così è nata la sezione competitiva Prospettive, dieci titoli realizzati da autori sulla trentina con una filmografia in molti casi ancora acerba. A Rada di Alessandro Abba Legnazzi, e L’albero di trasmissione di Fabrizio Bellomo, sono stati affiancati dei film presentati a Milano in anteprima, con registri narrativi eterogenei ma che, curiosamente, sembrava aderissero a un percorso comune, non sappiamo se per una tendenza del momento o se per una specifica volontà dei selezionatori.

Di fatto, le «prospettive» sono parse più «retrospettive», sguardi di realtà cristallizzate, di passati da rielaborare e da immaginare, di tempi sospesi. Questo, a partire dai due film appena citati, Rada e L’albero di trasmissione. Il primo, pur raccontando una storia al presente, quella di ex marinai in una casa di riposo a Camogli, riprende un microcosmo che si nutre di ricordi, di rimpianti, di abilità che col passare del tempo si sono inevitabilmente spente. Senza mai uscire dalla casa di riposo, il regista inquadra uomini-fantasmi, con una sola donna a badarli, in una specie di sala d’attesa che si frappone tra la vita vissuta e l’ignoto. Una memoria, quella di questi uomini radicalmente soli, che non alimenta il presente, che non produce relazioni e che, dunque, non dà luogo ad alcun imprevisto. Una realtà cristallizzata è anche quella della famiglia Ciliberti che di padre in figlio ha provato a trasmettere un sapere tecnico e pratico. Sospesi nel tempo, i Ciliberti riparano e reinventano letteralmente oggetti che fuori dalla loro officina, iniziando dalla stessa Bari, la città dove è ambientato L’albero di trasmissione, sembrano destinati più che all’uso quotidiano all’esposizione in un museo dell’uomo.

Eredità che non hanno eredi, mondi disabitati, come quello immaginato da Luca Ferri in ABACUC. Con immagini che alludono a un archivio e che testimoniano la vita di un «ultimo uomo», Ferri, racconta il tramonto di un intero mondo. E non tanto diverso sembra il mondo evocato dalle immagini di Maria Giovanna Cicciari che in Hyperion dà voce a Friedrich Hölderlin e al sogno di una Grecia che esiste come ideale, non certo come luogo della convivenza.

La scomparsa di uno spazio pubblico è esemplificata nel film che ha vinto il concorso, Tyndall di Fatima Bianchi. Un’abitazione, una serie di camere, in ognuna delle quali una persona è intenta a fare qualcosa e a scrivere una lettera al protagonista della storia, l’unico che non appare mai, perché è fuori da quella casa e forse vi farà ritorno un giorno. Tyndall mette in scena il tentativo di ricomporre un mondo con gesti e ritualità quotidiane. Tutti si riferiscono a un’assenza, nessuno ha una relazione con la presenza degli altri. Il passato nuovamente vince sulla vita in corso e, dunque, sul presente. Il collezionismo, tema ricorrente ad esempio nella menzione speciale della Giuria, Ednina di Jan Mozetic, diventa fondamentale per rielaborare il senso di un’esistenza, spesso al singolare, quasi mai declinata al plurale.

Pensando al modo in cui questi giovani autori si sono riferiti al passato, lasciando fuoricampo il futuro, viene in mente in modo esemplare un altro degli appuntamenti importanti di Filmmaker, la video installazione di Yuri Ancarani, San Siro. Presentata alla Galleria d’Arte Moderna, nell’opera geometrica di Ancarani ognuno dei protagonisti, dai giardinieri fino ai calciatori, ha un ruolo e uno spazio preciso nel quale agire. Il video, però, si chiude prima che la partita abbia inizio, cioè prima che l’imprevedibile si manifesti.