Nell’era egemonica dei media di massa (e della massa dei media) unire grossolanità storico-concettuali e propaganda politica è attività spesso capace di produrre chiasso e rumore.
Se poi a cimentarsi in quest’opera è un membro del governo, il miscuglio mal amalgamato è destinato a deflagrare. È il caso dell’attività compositiva del ministro dell’Istruzione (e del merito) Giuseppe Valditara che, appena insediato, ha iniziato a scrivere lettere a tema storico indirizzate a studentesse e studenti di tutte le scuole del Paese.

HA COMINCIATO il 4 novembre quando ha voluto condividere «il senso profondo della ricorrenza» della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. Il 9 novembre Valditara (che di scuola si è già, da par suo, occupato come relatore di maggioranza al tempo della riforma Gelmini) ha replicato la comunicazione urbi et orbi con una più estesa prosa, in occasione dell’anniversario della caduta del muro di Berlino del 1989. Nella circostanza le sue ardite analisi storiche hanno cozzato malamente tanto con la postura che dovrebbe assumere un ministro quanto con i fatti.

Secondo Valditara il crollo del muro non rappresenta soltanto la fine della Guerra Fredda ma «seppure non segnando la fine del comunismo» (che il ministro individua in Cina) «ne determina l’espulsione dal Vecchio Continente». Il punto tradisce da subito l’obiettivo politico della lettera (pur infarcita di citazioni di Blaise Pascal e panegirici sulle traiettorie drammatiche della utopia che si trasforma in tragedia) ovvero espellere dalla vicenda fondativa europea il comunismo come movimento storico.

UN TALE SMACCATO uso pubblico della storia poggia naturalmente su omissioni, rimozioni e falsi. Ciò al netto della legittima critica al socialismo reale (d’altro canto scriviamo dalle pagine de Il Manifesto che nacque proprio dalla rottura con il sistema di Mosca).
Il comunismo europeo ricoprì un ruolo centrale e decisivo in seno a tutti i movimenti di Resistenza armata e civile del continente che portarono alla sconfitta del nazifascismo. La presenza politica e numerico-militare delle forze comuniste fu maggioritaria e prevalente tanto in Italia quanto in Francia piuttosto che in Jugoslavia, Grecia e Albania. L’Urss contribuì con oltre 20 milioni di morti (la metà del totale della Seconda Guerra Mondiale) alla vittoria, dirimente per il destino dell’umanità, contro la Germania di Hitler, l’Italia di Mussolini ed il Giappone di Hirohito.

NEL CORSO DELLA Guerra Fredda, pur con i vincoli esterni derivanti dalla divisione bipolare del mondo, i comunisti svolsero un ruolo di grande rilievo. A raccontarlo è Altiero Spinelli, padre dell’Europa unita e autore del Manifesto di Ventotene, anch’esso militante comunista perseguitato dal fascismo e poi nel 1979 parlamentare «indipendente» europeo del Pci.

Nei giorni che precedettero la morte di Enrico Berlinguer fu proprio Spinelli a ricordarne, in un’intervista a l’Unità dell’11 giugno 1984, il lascito nella costruzione dell’Europa: «La sua iniziativa ed elaborazione politica vengono da lontano, è stato lui che ha portato a compimento una politica comunista tesa a conquistare un’Europa fatta dagli europei».

DAL CANTO SUO Valditara scrive che «il 9 novembre finisce un tragico equivoco nel cui nome, per decenni, il continente è stato diviso e la sua metà orientale soffocata dal dispotismo». Qui, semplicemente, viene cancellata l’esistenza delle dittature occidentali europee durate fino alla metà degli anni ‘70 in Spagna, Portogallo e Grecia nonché il regime militarista della Turchia, storico bastione della Nato. Di cui avrebbe potuto far parte anche l’Italia se non fosse stata difesa dai comunisti italiani nel lungo secondo dopoguerra, vale a dire il periodo della Guerra fredda, mentre i neofascisti la insidiavano con stragi e tentati golpe.

IN CONCLUSIONE della sua ricostruzione della storia il ministro afferma che questa data «non può che essere la festa della nostra liberal-democrazia» coniugando da un lato il disconoscimento del carattere della Repubblica e dall’altro quel conformismo che da tempo ha preso arbitrariamente a definire (sui mass-media proprietari) la nostra come una «democrazia liberale».

In Italia democrazia liberale ha storicamente significato una cosa precisa: un regime monarchico, senza diritti per donne e classi popolari, che per salvarsi spalancò le porte al fascismo. L’Assemblea Costituente disegnò una democrazia costituzionale in cui non solo negli articoli 1 e 3 viene sancito il profilo identitario di un sistema nuovo di diritti ma che all’articolo 42 prevede la «funzione sociale» della proprietà privata.

SE VALDITARA «traccia il solco» è Meloni che «lo difende» con un video-messaggio in cui prova a citare maldestramente Benedetto Croce, omettendo che il filosofo liberale fu autore, in pieno regime, del manifesto degli intellettuali antifascisti.

Una parola – antifascismo – che Meloni, espressione di un mondo e di un retaggio postfascista, non è stata ancora in grado di pronunciare, pur trovandosi a guidare il governo di una Repubblica nata dalla Resistenza costruita – ricordava il comandante partigiano comunista Arrigo Boldrini – «per noi e per quelli che stavano con noi; per quelli che non avevano preso parte e anche per quelli che erano contro».