Progetto Ibsen
Teatro Intervista a Federica Fracassi e Luca Micheletti
Teatro Intervista a Federica Fracassi e Luca Micheletti
Poco meno di cinquant’anni fa, Ruggero Jacobbi, affidando ad un libretto le sue riflessioni, profilava da autentico detective delle scene le ragioni del successo e la posterità del teatro di Ibsen:”Lo scrittore attraversa allora una sorta di purgatorio, la sua figura si fa improvvisamente nebbiosa, le nuove generazioni sembrano volersi vendicare di lui e della sua fama. Da questa fase si esce con difficoltà e nel momento meno prevedibile; ma solo a questa condizione lo scrittore passa poi dallo status di uomo del suo tempo a quello di voce di tutti i tempi, componente essenziale della coscienza umana”. Un passo indietro: Ibsen nacque nel 1828 a Skien in Norvegia; la morte lo colse ad Oslo nel 1906: un anno che fu “magico” per la letteratura, il teatro, il cinema; allora videro la luce Beckett, Rossellini, Billy Wilder, Visconti, Mario Soldati. Dunque a poco più di centodieci anni dalla scomparsa e ad un lasso di tempo dimezzato da quella data, dando ascolto alla prognosi postuma di Jacobbi, gli attori Federica Fracassi e Luca Micheletti, quest’ultimo anche regista, sembrano essersi passati il testimone di portavoce del grande drammaturgo norvegese attraverso il Progetto Ibsen. Con i due, appena scamiciati dai panni di Rebekka West e del pastore Rosmer, coppia incestuosa assassina e suicida del dramma “Rosmersholm”, primo dorso del suddetto progetto, oggi e fino all’11 febbraio prossimo al Teatro Franco Parenti di Milano, s’improvvisa una conversazione che tocca più di un argomento, barrato sempre dall’ingombrante opera del “Freud del teatro”. Tanto per anticipare interrogativi che cominciano ad aprirsi già sulla scelta di “Rosmersholm” come testo ouverture del programma che avrà il suo apice con l’allestimento il prossimo 3 aprile del “Peer Gynt”. Micheletti e la Fracassi hanno già lavorato insieme al “Mephisto” di Klaus Mann e il 18 febbraio s’apprestano, per il ciclo “Per amore della poesia” al Teatro Parenti, a leggere le “Quartine” erotiche” di Patrizia Valduga. Dunque progetti trasversali e impegni vari occupano su più fronti i due protagonisti del dramma ibseniano: ”Mentre lavoravano al piano di lavoro dell’intero progetto e al “Peer Gynt” ci siamo imbattuti nella riduzione di “Rosmersholm” operata a metà degli anni ‘80 da Massimo Castri” – sottolinea Micheletti – “allora gli interpreti erano Piera degli Esposti e Tino Schirinzi”. “La nostra lettura però è completamente differente, non solo nell’allestimento scenico, ma anche nello svolgimento del dramma. Allora la trama appariva più come un giallo. Ci si domandava chi era il colpevole della morte di Beata, la prima moglie di Rosmer. Ora invece la domanda è rivolta al fallimento esistenziale dei due protagonisti. Al confessare la loro colpevolezza”. Il gioco della confessione è il sottotitolo del monodramma e l’andamento è quello di un melò gotico, un tanto di Verdi un po’ di Poe (l’uso della musica è però assolutamente moderno e spazia dallo sperimentalismo prog degli Henry Cow alle operette di Emmerich Kálmán): il primo pare un omaggio all’Italia, d’altronde l’intera opera di Ibsen è stata da più parte chiamata “la Roma del dramma moderno”, e non solo per i continui e fecondi soggiorni romani o ischiani del drammaturgo. Ibsen era attaccato alla sua Norvegia, ma le migliori ispirazioni per “Casa di bambola” e “Brand” le ebbe senza alcun dubbio in Italia. Ciò vale anche per il “Peer Gynt”. Il secondo si scomoda per l’atmosfera spettrale che invade la scena. Micheletti aggiunge:”E’ un Macbeth in salsa gotica ottocentesca. D’altronde come scelta registica si è deciso di giocare sulla coppia e sul conflitto interamente portato sia sul piano politico sia su quello privato”. La perdita delle certezze acquisite per schiatta familiare da Rosmer sembrano confondersi con il delirio psichico di Rebekka fino all’esito tragicamente coatto del suicidio. “Pur da diverse posizioni il rapporto è come se fosse in partenza azzoppato; questa è forse è la chiave psicoanalitica che aveva affascinato sia Freud sia Groddeck”, ci tengono a sottolineare sia la Fracassi sia Micheletti. Insomma, è un viaggio da “camera” a 360°, dalla morte alla vita e di nuovo alla morte, quello che Rebekka e Rosmer compiono. Il livello altissimo raggiunto dai due interpreti è in “crescendo”, la tensione è sempre da raggiungere in salita, anche con affanno. E non viene mai sparata in prima istanza, capaci come sono e non è da tutti di economizzare le proprie risorse attoriali:”E’ un costante scavo nell’anima. Il parlare a due se ci si fa caso è ripetitivo. Finiscono per dire sempre le medesime cose. Sono morti e al contempo come fantasmi appartengono ad un altro mondo, ma è come se esistessero ancora. Ci siamo arrivati anche a causa del “Peer Gynt”. E’ un testo – dice ancora Micheletti – quello di “Rosmersholm che sta molto a cuore a Federica”. Inoltre, l’attrice milanese ha allargato la propria personale predilezione per Ibsen, andando direttamente sui luoghi di Peer Gynt quest’estate finendo per raccogliere in una mostra i suoi appunti di diario e le fotografie di Valentina Tamborra (Niente altro che finzioni. Viaggio immaginario sulle tracce di Ibsen. Spazio NonostanteMarras, Milano fino al 22 aprile). Tornando a “Rosmersholm”, con abile ed inedita strategia di marketing avete “tappezzato” di video una piattaforma digitale. A prendere la parola è la Fracassi:”Con i dieci clip di Rebekka & Rosmer in Milan, realizzati con la collaborazione di Samuele Romano, abbiamo dato avvio anche ad un esperimento di drammaturgia parallela. Mentre studiavamo, ci rendevamo conto che ci arrivavano molte suggestioni, talvolta inconsce che poi meditate molto abbiamo deciso di filmare. Il passo successivo è stato quello di trovare i set giusti di Milano. Siamo andati al Cimitero Monumentale ed in altri posti. Abbiamo costruito un percorso se si può dire gioioso all’interno di quell’ironia feconda che è dentro l’opera di Ibsen che come diceva Groddeck non si sa se fa ridere o piangere”.
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