«Non c’è ripristino possibile quando vengono autorizzati progetti di cave devastanti». È lapidario Mauro Chessa, geologo, ex-presidente della Rete dei Comitati per la difesa del Territorio della Toscana. La legge della regione Toscana sulle cave prevede che nel momento in cui un’impresa presenta un progetto preliminare di escavazione per partecipare alla gara per una concessione debba presentare contestualmente anche il progetto di ripristino e una polizza di assicurazione o fidejussione a garanzia.

Quando può funzionare un progetto di ripristino?

Nelle Apuane l’evidenza dice che i piani di ripristino non funzionano, data la quantità enorme di cave abbandonate, con relativi macchinari.

Quante sono le cave abbandonate da recuperare sulle Alpi Apuane?

Non sono mai state quantificate. Alcune non sono nemmeno chiuse, ma formalmente sospese. La normativa prevede che sia possibile riaprire cave abbandonate proprio per recuperarle. Viene cioè concesso di cavare un altro 30% rispetto al volume già estratto e documentato purché poi si possa rimodellare il versante. La discussione sulla riapertura di questo genere di cave è aperta. In questi casi le istituzioni prendono atto che la fidejussione a garanzia delle opere di ripristino non è stata utilizzata.

Come si fa a ripristinare un sito su cui insisteva una cava?

Premesso che l’attività di cava non può essere di per sé sostenibile perché il materiale non è rinnovabile, quello che si può fare è tentare di ricostruire la morfologia di un luogo. Accantonando materiale di scarto si possono risagomare versanti. Sulle Alpi Apuane è difficile l’opera di rinaturalizzazione, perché il marmo è sterile, non ci cresce niente. Quindi serve del terreno di riporto dove fare crescere la vegetazione per cercare di mascherare le ferite.

Costa molto ripristinare una cava?

I costi sono assolutamente accettabili, visti i rendimenti delle cave delle Apuane.

La natura può fare da sé?

La natura ha tempi estremamente lunghi.

C’è qualche esempio di buona pratica di ripristino sulle Apuane?

Qui no. Le vecchie cave erano svincolate da tutto, sono stati abbandonati persino i macchinari, mentre per quelle più recenti non ci si pone il problema. La prospettiva è andare avanti finché c’è materiale. Evidentemente nemmeno le istituzioni, dai Comuni al Parco, dall’Arpat alla Regione, si pongono il problema.

Quanto marmo c’è sulle Alpi Apuane? Per quanti anni si può andare avanti con questi ritmi di estrazione?

Di materiale ce n’è ancora tanto, anche se i giacimenti più accessibili sono finiti e quindi va cercato sempre più in profondità e non è detto che sia economicamente sostenibile estrarlo. Non è tutto marmo statuario, quello della qualità migliore. Sulle Apuane di materiale ornamentale se ne cava sempre meno, mentre si estrae sempre più carbonato di calcio. Possibile che questo non si possa recuperare come sottoprodotto da altre attività industriali e che la regione Toscana permetta di sventrare le montagne per produrlo?

I moderni macchinari che si usano nelle cave rispettano la montagna?

In teoria sì, sono strumenti chirurgici, che potrebbero limitare molto gli scarti, invece succede esattamente il contrario perché il carbonato di calcio ha un mercato.

I controlli sui piani di escavazione sono sufficienti?

Osserviamo una grande elasticità nei controlli e ci pare che non siano così incisivi. E anche quando vengono segnalati degli abusi, difficilmente vengono sanzionati. Riportare tutto al livello di legalità sarebbe già tanto.