Romano Prodi «soffre in silenzio» per le divisioni nel Partito democratico e invece sarebbe utile sapere che ne pensi. Una sua conversione a un credo rivoluzionario non rientra fra le ipotesi più verosimili, quindi non è il caso di farsi illusioni sulla prospettiva politica.

Ma Prodi è persona seria, né sprovveduta né ipocrita. Forse un suo intervento sulla regressione del Pd in partito personale-reazionario potrebbe contribuire a elevare il tono di una discussione alquanto depressa. E deprimente.

Qual è il punto? Si tratta di chiedersi in che rapporto stiano Renzi e il renzismo col Pd, creatura cara al suo padre nobile che evidentemente auspicava per lei ben altro destino. Ma quale altro destino era possibile? Di certo l’avvento di Renzi non era inevitabile. Era però possibile, e da questa evidenza non è dato scartare. Non è allora il momento di fare seriamente i conti col fondamento decisivo dell’operazione che otto anni fa diede i natali al Pd?

Cominciamo dagli aspetti istituzionali.

Il renzismo dichiara il suo volto brutale con la «riforma» costituzionale ed elettorale. Ma il cuore di questa «riforma» è la transizione di fatto al presidenzialismo e al bipartitismo, idoli entrambi del «rinnovamento» avviato col passaggio alla «seconda Repubblica». E stelle polari della torsione americanista impressa dal primo segretario democratico.

Nell’eroico furore dei primi anni Novanta si invocò l’importazione del bipartitismo anglosassone, venerato come modello assoluto in spregio alla storia e alla composizione politica del nostro paese. Con una sola finalità, ignorata dai più e inconfessata dai registi dell’operazione: sbarazzarsi della sinistra già in crisi storica, essendo chiaro che centro e destra in Italia erano invece e restano robusti e ben radicati.

La costituzione del Pd fu una tappa decisiva in questo processo. Realizzare la sintesi organizzativa delle due formazioni eredi dei partiti protagonisti della prima Repubblica, unirli dentro la camicia di forza del partito unico, doveva servire a trasformare la dialettica politica in immediati rapporti di potere disciplinati dai regolamenti e garantiti dagli organigrammi. Con un retropensiero ben fondato: attraversata dal travaglio sulle proprie ragioni, radici e prospettive, la debole sinistra post-comunista avrebbe presto ceduto alla pressione degli eredi della Dc, saldi nel solco millenario del comando cattolico sulla società e sulle istituzioni. Ciò che è puntualmente avvenuto, con crescente efficacia, in questi anni. C’è da stupirsi se un’operazione di tale portata, confliggente con lo spirito della stessa Costituzione repubblicana, generi qualche contraccolpo?

Veniamo all’altro versante del problema, forse meno evidente, non certo meno essenziale. La fusione fredda che ha dato vita al Pd non è stata scevra da violenza nemmeno sul terreno culturale e ideologico. Si pretese di fondere due letture della realtà irriducibilmente alternative. Cioè, ancora una volta, di sacrificarne una.

Da una parte stava l’idea che il modo di produzione capitalistico racchiude un nesso conflittuale, funzionale alla riproduzione della divisione gerarchica delle posizioni sociali (col corollario, in linea di principio, della «necessità storica» di una radicale trasformazione della società); dall’altra, vigeva il convincimento della natura cooperativa del meccanismo riproduttivo, sullo sfondo di una lettura organicistica della società come «grande famiglia» da servire con «buona volontà» (e, da parte degli «ultimi», con speranza e spirito di accettazione).

Certo, fu possibile pianificare la convergenza (in linea di principio impraticabile) tra le due posizioni perché era da tempo in atto l’abiura a una delle due. Ma le cose non sono così semplici. Nel ceto politico dominano calcoli di utilità e previsioni di breve. E di certo l’attuale travaglio del Pd non può essere credibilmente ricondotto al confronto politico-storico tra guelfi liberali conservatori e ghibellini socialisti rivoluzionari che ha segnato l’adolescenza delle società contemporanee in Occidente. Ma in tutti i soggetti storici c’è una sorta di inconscio collettivo che dice la sua e si fa sentire anche da quanti lo ignorano e non ne decifrano i messaggi.

Dentro il Pd si avverte ancora la flebile eco di una storia di conflitti sociali; vi è traccia di un radicamento nelle lotte sindacali; e permane qua e là la consapevolezza della discendenza dall’antifascismo e dalle battaglie per la costruzione di una democrazia partecipata e progressiva. Soprattutto intorno al Pd c’è ancora – benché in vistosa sofferenza e a rischio di estinzione – un mondo che affonda le radici in una storia secolare di conflitti operai e contadini, di scontri di piazza per la giustizia sociale e la liberazione. Un mondo che trasmette, col suo sconcerto e le sue frustrazioni, il sentimento della grave posta giocata nella mutazione genetica del comunismo italiano, nell’organica omologazione dei suoi discendenti alla controparte moderata e «riformista».

Oggi siamo costretti a fare i conti con Renzi e le sue «riforme» reazionarie, e ci si chiederà cos’abbia a che fare lo scenario politico odierno con questo nobile passato. A ben guardare sussistono stretti legami proprio perché il renzismo incarna alla perfezione la ratio dell’operazione realizzata otto anni fa e ne esplicita il senso. In questa fase storica l’egemonia centrista porta con sé la trasformazione postdemocratica della società, quindi, giocoforza, lo sterminio (anche a mezzo di corruzione e cooptazione trasformistica) dei residuali punti di resistenza legati alla cultura e alla storia politica e sociale della sinistra.

Prodi soffre in silenzio. C’è un po’ di spreco in questa scelta. Sarebbe interessante capire se nelle convulsioni della sua creatura egli vede solo uno sgradevole incidente o vi scorge per caso anche una piccola vendetta della storia per le forzature che resero possibile la creazione del Pd. Che fu un gesto di superbia, simile a una manipolazione genetica a fini di potere.