Respingendo due questioni di costituzionalità sollevate entrambe da tre diversi tribunali, la Corte costituzionale ha messo ieri sera il sigillo su due delle norme più contestate in materia di processo penale del governo Conte uno e del governo Conte due. Nel primo caso si tratta dell’esclusione dal rito abbreviato dei reati punibili con l’ergastolo, legge bandiera della Lega firmata dall’allora sottosegretario all’interno e colonnello di Salvini Nicola Molteni. Nel secondo di un ulteriore stop alla prescrizione – ormai cancellata per tutti i processi dopo la sentenza di primo grado – legato all’emergenza Covid nei tribunali, e stabilito retroattivamente prima dal decreto Cura Italia a marzo e poi dal decreto Liquidità ad aprile.

In questo secondo caso le questioni di costituzionalità erano state sollevate dai tribunali di Siena, Spoleto e Roma, convinti che la sospensione dei termini di prescrizione violasse il principio di legalità penale – scolpito sia nella nostra Costituzione (articolo 25) sia nella Convenzione europea per i diritti umani (articolo 7) – che vieta l’applicazione retroattiva di norme sfavorevoli al reo. E la prescrizione nell’ordinamento italiano è (era?) pacificamente considerata un istituto di natura sostanziale, non una regola processuale.

La decisione della Corte – relatore il giudice Zanon – per quanto limitata al caso della sospensione a causa dell’emergenza Covid (che ha tenuto fermi i tribunali) andrà letta con attenzione nelle motivazioni. Perché può pesare nel dibattito politico sulla prescrizione più in generale, congelato dal compromesso di maggioranza nella formula bizantina dell’articolo 14 del disegno di legge delega Bonafede sul processo penale. Dove si introduce lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, prescrizione che però si recupera se in appello interviene il proscioglimento. Così come la prescrizione si ferma ugualmente, per 18 mesi, se viene proposto appello contro l’assoluzione in primo grado e il reato rischia di prescriversi entro l’anno. Il disegno di legge delega di riforma del processo penale che contiene questa norma, presentato otto mesi fa, è ancora in commissione alla camera sottoposto alle critiche dagli esperti che sfilano in audizione.

La seconda sentenza della Corte ieri sera in camera di consiglio è stata ugualmente di non fondatezza, in questo caso con qualche sorpresa in più. Oltre al gip di La Spezia, al gup di Piacenza e alla Corte di assiste di Napoli che avevano sollevato la questione di legittimità sulla non applicabilità ai reati punibili con l’ergastolo del rito abbreviato, diversi tribunali avevano nel frattempo scelto di fermarsi per aspettare la decisione dei giudici delle leggi. In effetti i reati gravi astrattamente punibili con l’ergastolo sono quelli per i quali gli imputati hanno più convenienza ad accedere al giudizio abbreviato e ai conseguenti sconti di pena, anche perché è frequente che le prove siano già agli atti e il dibattimento non sia indispensabile. Riportare questi reati nel rito tradizionale sta già avendo pesanti ricadute sui tribunali oberati dalle cause. Tant’è che sia il Csm in un parere del febbraio 2019, sia l’Unione camere penali, sia la stessa Associazione magistrati nel novembre 2018 si erano espressi contro questa legge voluta dalla Lega (5 Stelle a ruota) prevedendone l’effetto negativo sulla durata dei processi. Ma la Corte, anche in questo caso in attesa delle motivazioni (il relatore ieri in udienza è stato il giudice Viganò), non ha ravvisato la violazione degli articoli 3 (uguaglianza), 24 (diritto di difesa), 27 (presunzione di non colpevolezza) e 111 (ragionevole durata del processo) della Costituzione.