Chissà se mai ci sarà giustizia per le vittime dell’Eternit. Sono più di quarant’anni che la reclamano, con una vicenda – almeno per quanto riguarda la battaglia di Casale Monferrato (Alessandria) – precorritrice di quel conflitto tra salute e lavoro purtroppo ancora irrisolto. Ora si apre un nuovo spiraglio, non per vendetta ma appunto per giustizia. Ieri i pubblici ministeri Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare hanno chiesto, davanti alla Corte d’Assise di Novara, l’ergastolo per Stephan Schmidheiny, magnate svizzero dell’amianto ultimo proprietario della multinazionale Eternit. Ergastolo, con isolamento diurno, senza attenuanti: la pena massima prevista dal nostro ordinamento.

Schmidheiny è l’unico imputato del cosiddetto processo Eternit Bis, in corso a Novara, per omicidio volontario, plurimo con dolo eventuale, di 392 persone, vittime dell’amianto nel territorio di Casale. I pm hanno voluto evidenziare come all’imputato, che non ha mai presenziato a un’udienza ed è stato descritto come «un imprenditore colonialista», fosse ben nota fin dall’inizio della sua avventura ai vertici dell’Eternit la pericolosità dell’esposizione all’amianto. Nonostante ciò, l’imprenditore – oltre ad attuare pratiche di disinformazione – avrebbe omesso di adottare le misure per proteggere lavoratori e cittadini. Perché dopo gli operai, che lavoravano immersi in quella polvere infernale, hanno incominciato ad ammalarsi e a morire i cittadini, a causa dell’inquinamento ambientale diffuso in tutta l’area. Il polverino, materiale di scarto dato spesso in regalo ai dipendenti e impiegato per il battuto dei cortili, è stato, ad esempio, fonte moltiplicatrice d’esposizione.

Bruno Pesce rappresentante dell’associazione Afeva (Associazione familiari vittime amianto) di Casale, sindacalista di lungo corso nonché una delle anime di questa infinita battaglia, al termine dell’udienza svoltasi nell’aula magna dell’Università del Piemonte Orientale ha commentato: «Non sappiamo cosa resterà di questa richiesta, avendo in passato vissuto l’esperienza di preiscrizione del reato di disastro ambientale, e annullamento di condanne e risarcimenti. La richiesta dei pm, oggi, certifica, secondo quanto ricostruito, che l’imputato arrivato nel 1976 sapeva e non ha fatto nulla per anni. Le morti si potevano evitare. Non tocca noi stabilire la pena. Importante è riconoscere che vi siano state delle colpe e far sì che la sentenza sia da monito perché certe vicende non si ripetano».

Le 392 vittime del processo sono solo una parte delle 3mila persone che in questi anni nel Casalese sono state uccise oltre che dal mesotelioma, da asbestosi e tumore al polmone. L’Eternit ha operato a Casale Monferrato per 80 anni fino al fallimento per auto-istanza nel 1986. Tutti gli stabilimenti italiani chiusero nel giro di sei mesi e l’azienda si disinteressò della bonifica.

La gente di Casale incominciò a morire con maggiore frequenza (il mesotelioma ha una latenza di 40 anni), ma non smise mai di lottare. Negli ultimi anni c’è stato il maxi processo di Torino, imbastito dal pm Raffaele Guariniello e dalla sua squadra, annullato per prescrizione nel novembre del 2014. Fallito quell’«assalto al cielo», nel gennaio del 2020, Schmidheiny è stato rinviato a giudizio dal gip del tribunale di Vercelli, Fabrizio Filice, in accoglimento della richiesta formulata dalla procura vercellese e dal sostituto procuratore di Torino Gianfranco Colace. Parti lese in questo procedimento penale sono i familiari delle vittime, numerosi Comuni del Casalese, sindacati e associazioni.

Siamo a un nuovo capitolo e si spera che, prima o poi, si possa arrivare a un punto. Che Eternit diventi davvero Eternot, dal nome del parco inaugurato sulla superficie bonificata dove un tempo sorgeva, in via Oggero, il fabbricone della morte.