Le tribolazioni penitenziarie di Julian Assange sono all’ennesimo crocevia. Ieri si è aperto il processo di appello degli Usa alla sentenza in primo grado della corte suprema britannica, che lo scorso gennaio si era pronunciata contro l’estradizione del fondatore di Wikileaks in un carcere americano, ove avrebbe finito presumibilmente per scontare un paio di secoli scarsi, al netto degli undici anni già trascorsi tra il carcere di massima sicurezza di Belmarsh e la surreale cattività nei pochi metri quadrati dell’ambasciata ecuadoregna.

IL RICORSO dei legali Usa era stato annunciato in agosto. Vogliono Assange dietro le sbarre per le famigerate rivelazioni di Wikileaks non solo sui bombardamenti libertari in Iraq così inspiegabilmente contestati, ma anche molto altro. Ieri hanno mosso un’offensiva volta a demolire le tesi della difesa dell’ex hacker attivista, che volevano Assange «inestradabile» nelle galere Usa, e che la giudice Vanessa Baraitser aveva sostanzialmente accolto. Hanno cercato di smantellarne le basi nella testimonianza di Michael Kopelman, illustre – ed emerito – neuropsichiatra del King’s College sul cui parere si basava il pronunciamento in primo grado della corte, e che aveva diagnosticato Assange come depresso e troppo vulnerabile per sopportare l’estradizione senza rischiare il suicidio. Nessun rischio simile, hanno assicurato gli americani, ribadendo che, qualora estradato, Assange non sarebbe detenuto in carceri di massima sicurezza, potrebbe perfino scontare la pena in Australia e poi chi si suiciderebbe – continua la loro fin troppo empatica analisi – quando ha una compagna e dei figli (per tacere del fatto che il non poterli vedere perché si scontano centinaia di anni di carcere oltreoceano, il suicidio non possa invece incentivarlo).

La seduta si è conclusa alle diciassette di ieri ora locale. Assange è comparso brevemente, consunto e a sorpresa – inizialmente aveva detto di non sentirsi bene – via video link. Oggi toccherà ai suoi legali controbattere. L’obiettivo è la conferma della sentenza di primo grado, che argomenteranno denunciando la fallacia di uno dei principali argomenti della parte avversa, ovvero la testimonianza contro Assange di un hacker islandese, Sigurdur Ingi Thordarson, già collaboratore dell’Fbi che aveva accusato l’attivista australiano di avergli chiesto di sorvegliare bersagli politici e istituzionali islandesi, testimonianza rivelatasi poi del tutto falsa per ammissione dello stesso Thordarson.

LA SENTENZA di primo grado contro l’estradizione unicamente su basi medico/umanitarie era soprattutto dovuta al fatto che la giudice Baraitser ignorava che l’accusa contro Assange fosse falsa, ragionerà oggi la difesa. Usando anche altre rivelazioni, alcune decisamente incendiarie: come la notizia recente che la Cia avesse preso seriamente in considerazione l’ipotesi di uccidere Assange nel 2017, quando era ancora barricato nella minuscola ambasciata latinoamericana a Londra. Alla luce delle quali dimostrare come del tutto politiche le motivazioni degli statunitensi. Perché, per Julian Assange, tra prosecution (accusa) a persecution il passo è non solo lessicalmente breve.

IERI E OGGI un nutrito drappello di sostenitori suoi, di Wikileaks e della libertà di stampa ha sostato in presidio davanti all’alta corte. Musica dal vivo, slogan come there’s only one decision/no extradition. È stata poi la volta degli interventi dell’attuale direttore di Wikileaks, Kristinn Hrafnsson, di Stella Morris, la compagna di Assange e di Richard, suo padre. L’esito del processo sarà annunciato nelle prossime settimane.