Di «rinvio» Giuseppe Conte non vuole neppure sentir parlare. Quando, a Osaka, legge la parola maledetta campeggiare su tutti i giornali la prende male. «Non giochiamo con le parole e cerchiamo di non essere sempre anti-italiani», sbotta. La procedura o c’è o non c’è, e se «una procedura che fino a ieri veniva data per scontata sarà evitata, questo è un risultato che il governo porta a casa». Certo, la legge di bilancio sarà poi passata al contropelo e la procedura, se evitata ora, potrebbe scattare in quel momento. Conte lo sa benissimo e non lo nasconde. Però di Italia «rimandata a ottobre» non si può e non si deve parlare comunque.

A prima vista sembra la classica questione di lana caprina, questione di forma, non di sostanza. La batosta che pende dal 5 giugno è la stessa messa in ballo l’inverno scorso e poi lasciata in sospeso in attesa delle elezioni europee. Se non scatterà il 9 luglio, resterà comunque presente come minaccia a breve. Invece le differenze ci sono. Prima di tutto dal punto di vista della tensione reciproca. Annunciare formalmente non la chiusura ma la sospensione della decisione significherebbe mettere l’Italia di fronte a una sorta di ultimatum ufficiale. Equivarrebbe al chiedere, pur senza dirlo apertamente, di poter, se non proprio dettare, almeno condizionare nei particolari la prossima manovra.

Ma c’è anche una questione meno impalpabile, legata al calendario. Ufficializzare il congelamento della procedura vorrebbe dire rimandare la decisione, come alcuni giornali anticipavano ieri, all’inizio di ottobre, e segnatamente al 9 di quel mese, subito dopo la presentazione della legge di bilancio. Mettere le cose in modo più vago permetterebbe invece di giocare una classica partita come tante in passato sulla finanziaria, sia pure con una posta in gioco più alta. Ci sarebbe cioè tempo sino al voto definitivo, a dicembre, per trattare, limare, correggere.

Il problema è che se l’Italia è ormai vicina a evitare l’avvio della procedura, la formula che sceglierà la commissione è a sua volta un terreno di scontro. L’Italia può contare sulle pressioni a suo favore della Bce e di un gruppo di Paesi decisivi, tra cui probabilmente Germania e Francia. Ma i Paesi nordici vorrebbero invece che si seguisse subito la linea dura. Il vicepresidente Valdis Dombrovskis lo ha fatto capire con le tipiche maniere felpate in voga a Bruxelles. Il premier olandese Mark Rutte, anche in seguito allo scontro sulla Sea Watch, invece va giù piatto: «Spetta alla commissione decidere ma finora non ho visto niente che indichi la possibilità che l’Italia sfugga alla procedura». I rigoristi del Nord Europa non dovrebbero avere la forza per imporre la procedura. Però la necessaria mediazione con quei Paesi potrebbe proprio passare per una formula di rinvio severa, tale cioè da chiarire che la questione resta ancora tutta aperta.

In quel caso diventerebbe più che mai centrale il nodo della Flat tax, l’elemento che più di ogni altro desta i sospetti della Ue. Per questo Conte vorrebbe che se ne parlasse il meno possibile. Ma Matteo Salvini, messo all’angolo sulle autonomie dall’analisi approntata da palazzo Chigi che ne sforbicia tutti gli elementi decisivi e impone di passare per il vaglio del Parlamento, e in situazione critica anche sull’Ilva, non può accontentarlo. Si trova nella situazione paradossale di essere fortissimo senza però riuscire a incassare niente.

L’ultima mano, prima della decisione, si giocherà domenica a Bruxelles. Dovrebbe essere il varo della nuova commissione con il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti in pole position come commissario italiano. Ma l’accordo tra Francia e Germania è ancora lontano.