«Niente sarà più come prima». Questa parole, che ci hanno accompagnato nella fase iniziale della pandemia, sono state rapidamente cancellate dal desiderio di un rapido «ritorno alla normalità». C’è, però, almeno una cosa destinata a non restare com’era. È il nostro debito pubblico che, essendo cresciuto di ben 25 punti nel rapporto sul Pil, raggiungerà quest’anno la storica vetta del 160 per cento (Def – Documento di Economia e Finanza – 2021), il livello più alto di sempre, al di sopra di quello toccato nel 1919 al termine della Grande Guerra.

Nello stesso Def si sottolinea che “la riduzione del rapporto debito/Pil rimarrà la bussola della politica finanziaria del Governo”. Noi sappiamo bene cosa questo voglia dire, come questo fiero proposito finisca per tradursi in una nuova, feroce riduzione della spesa sociale.

Lo abbiamo sperimentato in passato e niente lascia sperare che stavolta le cose andranno diversamente. Ecco perché la sinistra non può lasciare il campo al déjà vu mentre in Francia il dibattito è aperto come mostra l’articolo di Renaud Lambert sull’ultimo numero di Le Monde diplomatique (n. 6, giugno 2021); e se la preoccupazione per nuove politiche di austerity è forte oltralpe, dove il rapporto debito/Pil ha raggiunto il 120 per cento, è evidente che non possiamo essere noi italiani a ignorare il problema.

Nel dibattito avviato dalla sinistra transalpina spicca, tra le altre, una proposta di cancellazione (parziale) del debito in cambio dell’impegno dei singoli paesi a investire in progetti di transizione ecologica i capitali che, a scadenza, andrebbero rimborsati alla Banca centrale europea. Due piccioni con una fava: abbattere il peso che grava sui paesi europei più fragili e accelerare la transizione ecologica. Lambert ammette, tuttavia, che la Bce non ha altro compito, per statuto, che il controllo dell’inflazione e che la Germania insieme ai paesi cosiddetti “frugali” non accetterà mai proposte del genere.

Niente da fare allora? Forse c’è qualcosa che va in quella stessa direzione ma non richiede l’intervento della Bce o il consenso tedesco. La quota di debito pubblico italiano detenuta dalla Banca d’Italia è salita al 21,6 dal 16,8 per cento del 2019, mentre la quota detenuta da non residenti è scesa dal 31,9 al 29,8 per cento (Relazione annuale Banca d’Italia 31 maggio 2021). Una parte, dunque, rilevante del nostro debito pubblico si trova nelle mani di istituzioni, società finanziarie e famiglie italiane.

Se la conversione automatica di questo debito in investimenti è impraticabile per le note ragioni di difesa della reputazione del debitore, nulla vieta che il risparmiatore, su base volontaria, acconsenta alla conversione delle obbligazioni a scadenza in quote azionarie di capitali destinati a imprese pubbliche nel campo delle energie rinnovabili, della mobilità sostenibile, della cura del territorio. Anche qui prenderemmo due piccioni con una fava: riduzione del debito pubblico e nuovi posti di lavoro nei settori dove, da tempo, più arranchiamo.

I risparmiatori sarebbero remunerati con i dividendi delle imprese che hanno contribuito a capitalizzare oltre che dall’eventuale incremento del valore dei titoli azionari. Siamo così sicuri che non esistano nel nostro Paese risparmiatori disposti a correre qualche rischio pur di onorare quel patto tra generazioni tante volte evocato?