Gli epistolari non appartengono certo a un genere familiare al nostro orizzonte (e non si può dar la colpa solo all’onnipresenza di mail, SMS e altre forme di comunicazione digitale). Ma l’impressione di lontananza sparisce presto davanti a quello di Johann Joachim Winckelmann, pubblicato dall’Istituto Italiano di studi germanici di Roma a cura della germanista Maria Fancelli e della storica dell’arte Joselita Raspi Serra: Lettere, traduzioni di Bianca Maria Bornmann, Barbara Di Noi, M. Fancelli, Delphina Fabbrini, J. Raspi Serra, Paolo Scotini, Francesca Spadini (vol. I , pp. 906; vol. II, pp. 759; vol. III, pp. 881, € 125,00).
Quello di Winckelmann – il fondatore dell’archeologia classica intesa come storia dell’arte – non è per nulla un epistolario fittizio, una raccolta pensata per lettori colti; si tratta di lettere, più di 800, scritte (e inviate) nel corso di una vita, dal 1742 al 1768, l’anno della morte a Trieste. E davvero, se non tutta, c’è gran parte della vita di Winckelmann, in una sorta di autobiografia indiretta e involontaria.
Già ai contemporanei questi brevi scritti sembrarono preziosi, tanto è vero che iniziarono presto a circolare: la storia della pubblicazione delle lettere, che Maria Fancelli ripercorre nel primo volume, è anzi un capitolo a sé, che racconta da solo il peso che Winckelmann ha avuto nella cultura europea dal Settecento in poi (basti ricordare, tra gli altri, il coinvolgimento di Goethe, che nel 1805 rese nota la corrispondenza con J. D. Berendis). Nel nostro paese va segnalata l’elegante, ma ormai lontana, edizione delle sole lettere italiane curate da Giorgio Zampa per Feltrinelli (1961).
Basata sulla più importante edizione del Novecento, quella di Walther Rehm (integrata con più recenti acquisizioni), la raccolta è dunque la prima edizione italiana completa delle lettere di Winckelmann, poiché comprende quelle in latino (le più antiche, a cominciare da quella rivolta al Senato di Stendal), in francese, in italiano e, naturalmente, in tedesco. Le lettere sono disposte in ordine cronologico in tre corposi volumi, ciascuno dei quali si apre con un saggio che riannoda i singoli testi alle vicende biografiche e alle opere dello studioso tedesco; ricchi apparati di note, alla fine di ogni volume, analizzano puntualmente le missive fin nel dettaglio.
Non solo per specialisti
Una fatica rivolta agli specialisti, ma non solo. Pubblicare l’epistolario di Winckelmann significa infatti recuperare alla cultura italiana una figura che le appartiene pienamente. Senza contare che l’italiano è stata una delle lingue di Winckelmann, la più importante dopo quella materna, la lingua di tutti i giorni una volta arrivato in Italia. Sentite come ne parla all’amico Berendis: «Questa lingua è più difficile di quanto si pensi leggendo i libri. È ricca come il greco e l’accento romano si impara difficilmente. Ma visto che parlo con príncipi e cardinali, puoi ben capire che so il necessario».
Fa sorridere l’idea di un Winckelmann che si sforza di parlare romanesco, ma dal 1755 Roma per lui è il vero centro del mondo. La corrispondenza a ridosso di questa data sembra gravitare quasi unicamente sul tema del viaggio in Italia: in un primo tempo una provvisoria opportunità di studio, in realtà un trasferimento definitivo. Roma diventa occasione unica per l’incontro con quell’antichità classica sognata in gioventù e per un riscatto dopo gli anni di Dresda: «Ho passato ben 14 anni della mia vita in solitudine, la metà come rettore di una scuola, e poi come capobibliotecario della biblioteca del sig. conte di Bünau». Il viaggio a Roma non è cosa semplice e c’è di mezzo il tormento dell’opportuna (o opportunistica?) conversione al cattolicesimo: «Mio padre – scrive al solito Berendis – (…) non ha voluto fare di me un cattolico, mi ha fatto una pelle delle ginocchia troppo più sottile di quella che ci vuole per inginocchiarsi di buona grazia cattolicamente: avrebbe dovuto foderarle con un pezzo dei suoi tiranti da bufalo». Per il figlio del ciabattino, dunque, la città non è solo un’immensa riserva di sculture antiche: a Roma «godo della mia tranquillità … e vivo e opero secondo il mio arbitrio», perché «sono nato libero e voglio morire così». Con tutte le sue contraddizioni, «Roma comincia a piacere non appena si impara a rinnegare la pulizia tedesca, e io non riesco a trovare nulla che possa essere paragonato a Roma».
Un cardinale fanfarone
Si pranza e si cena nei palazzi dei cardinali; in queste occasioni Winckelmann parla poco ma, quando è costretto, si fa sentire: dal cardinale Passionei, un abate francese («fanfarone ignorante») ingaggia con lui una sfida culturale, ma «fu come spazzato via dalla corrente, e in presenza del cardinale gli dissi che era un ignorante e un asino». Le simpatie sono nette come le antipatie: «il mio unico giudice è il mio amico Mengs», lui sì che «sa cos’è la bellezza». Viceversa Giovanni Gaetano Bottari è «un notorio pedante e un povero ignorante in fatto di competenza artistica»; «il sig. conte Caylus sbaglia perché non sa abbastanza. Io ne so più di lui e degli artisti locali». Giovanni Pietro Bellori era «un dotto imbroglione e fanfarone», Du Bos «uno di quei rapsodisti che riversano in un libro tutto quello che sanno». La polemica con gli «scartabellatori di vocaboli», con l’«infima plebe degli eruditi», insomma con gli «antiquari», è un tema costante.
La lista dei corrispondenti parla da sé e non solo per la sua lunghezza: ci sono gli amici degli anni di studio (J. D. Berendis prima di tutto), quelli acquisiti una volta giunto a Roma (in primis il pittore Anton-Raphael Mengs); ci sono gli studiosi, locali e non (come Jean-Jacques Barthélemy), ma anche esponenti dell’aristocrazia, del mondo ecclesiastico, príncipi delle più importanti corti europee. C’è una sola donna (ed è la moglie di Mengs).
Aneddoti ed erudizione
È chiaro che tono e argomenti variano a seconda dell’interlocutore: per gli amici ci sono aneddoti, dimostrazioni di affetto, confidenze, confessioni; con gli eruditi e gli appassionati si discute di libri, si tratta di «questioni importanti dell’arte», si danno notizie sulle scoperte recenti (e non solo a Roma). Un capitolo a parte sono le lunghe relazioni dalla Campania e in particolare dagli scavi di Ercolano, luoghi ormai da anni sotto lo sguardo dell’opinione pubblica colta di tutta Europa.
Nella corrispondenza con gli amici più intimi fa capolino la vita quotidiana, e l’abbigliamento (comprese la biancheria, le camiciole, le calzette) sembra al primo posto: «da ottobre mi vesto da abate, la sola differenza è un nastro azzurro con un orlino bianco applicato a una fascia nera e una cappa di seta che non è più lunga della giubba. I pantaloni sono di velluto».
Le lettere accennano ai progetti di saggi e opuscoli abbozzati e poi abbandonati, ma descrivono anche le fasi di elaborazione delle opere poi condotte a termine; i Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura (il saggio che per primo gli darà fama internazionale), il catalogo delle gemme del barone von Stosch, il «lavoro bestiale» per cui non verrà pagato, i Monumenti antichi inediti (pubblicati in italiano). Ma soprattutto si delinea il progetto fondamentale, la Storia dell’arte nell’antichità. L’opera viene pubblicata a Dresda nel 1763, ma alcune lettere ne parlano già dal 1756; addirittura, il passo di una lettera del ’57 (nr. 172) sul Laocoonte sfocia quasi identico nella Geschichte. «Era infine il tempo, dopo quasi trecento anni, che qualcuno osasse lavorare a un sistema dell’arte antica, non per migliorare in tal modo la nostra, ché pochi ne sarebbero capaci, ma per imparare a guardarla e ammirarla» (lettera 373): ben lontana dall’essere un accumulo erudito di dati, ma un «sistema», la Storia dell’arte è l’esito di un ambizioso progetto educativo in ideale continuità col Rinascimento italiano. Mosso da questo desiderio di insegnare la grandezza dell’arte classica, spesso accompagna i forestieri per le bellezze di Roma, salvo poi stufarsi del comportamento di taluni annoiati gentiluomini britannici («inglesi bestiali e infelici che sono stanchi di qualsiasi cosa al mondo»).
Eppure, a volte questi viaggiatori fanno innamorare. Le parole indirizzate al barone Friedrich Reinhold von Berg, allora ventiseienne, sono uno dei momenti più commoventi dell’intero epistolario: «Un indecifrabile impulso verso di Voi, tale che non può sorgere solo dalla figura e dalle forme esteriori, mi ha fatto percepire fin dal primo momento una traccia di quell’armonia che va oltre ogni umano concetto, e che nasce dall’eterno legame tra le cose». Persino in un passo come questo riscontriamo l’idea tipicamente winckelmanniana che la realtà più profonda trapela nelle apparenze esteriori, degli uomini come delle statue.