La Corte del Cairo ha condannato duecentotrenta imputati all’ergastolo in riferimento alla loro partecipazione alle proteste di piazza Tahrir del 2011. Tra i condannati figura il noto attivista Ahmed Douma, già in prigione per aver violato la legge anti-proteste, insieme a Ahmed Maher e Mohamed Adel, tutti affiliati del movimento di sinistra 6 Aprile.

Il gruppo era stato messo fuori legge, insieme alla Fratellanza musulmana e al suo partito Libertà e giustizia, alcuni di questi attivisti avevano definito un accordo politico con gli islamisti provocando la spaccatura di 6 Aprile (alcuni dei militanti del gruppo hanno preferito formare un’organizzazione non governativa e non partecipare alle elezioni del 2011). Douma ha subito anche una multa pari a 2 milioni di euro per atti di vandalismo: tra l’altro viene incolpato anche di aver dato fuoco a manoscritti, custoditi nell’Accademia delle Scienze del Cairo.
Il tribunale ha condannato inoltre 39 minori, che dovranno scontare 10 anni di carcere per il loro coinvolgimento negli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine sempre nelle proteste del 2011. Si tratta della più dura sentenza contro attivisti laici che hanno preso parte alle proteste di piazza del 2011.

Se gli islamisti moderati sono a centinaia in prigione e altrettante sono le condanne a morte, decise dalla magistratura egiziana, contro esponenti della Fratellanza, anche gli attivisti laici sono sotto l’asfissiante pressione delle autorità. Il blogger Alaa Abdel Fattah è stato condannato a 15 anni per aver violato la legge anti-proteste, mentre sua sorella Sanaa, con altre 23 persone, continua a rimanere in prigione oltre i termini di detenzione previsti, per aver preso parte ad una manifestazione alle porte del palazzo presidenziale di Roxy ad Heliopolis.
Infine, è attesa per il prossimo 9 febbraio una nuova udienza contro Mahiennur el-Masry, l’attivista socialista, condannata a sei mesi di reclusione per aver partecipato a una protesta in ricordo di uno dei simboli delle rivolte egiziane, il giovane Khaled Said, ucciso dalla polizia di Alessandria.

Le sentenze sono state pronunciate dal giudice Mohammed Nagy Shehata, lo stesso che ha condannato i tre giornalisti di al-Jazeera (anche il cittadino egiziano-canadese è stato rilasciato ed estradato dopo aver preferito la libertà rinunciando al suo passaporto egiziano). Sempre Shehata ha condannato lunedì 183 islamisti, sospettati di aver perpetrato il sanguinario attacco contro la stazione di polizia di Kerdasa, costato la vita a 16 poliziotti. Douma, 29 anni, è stato una delle figure di spicco delle proteste del 2011 ed è diventato uno dei simboli della repressione dopo il golpe del 2013 che ha deposto l’ex presidente Mohamed Morsi. Douma ha reagito alla condanna con un applauso ironico verso la corte, a cui il giudice ha risposto: «Sei in piazza Tahrir? Non parlare altrimenti ti darò altri tre anni».

Questa condanna colpisce principalmente i giovani dei movimenti che più hanno collaborato o hanno soltanto difeso il diritto di esistere della Fratellanza musulmana in Egitto. Il principale errore degli islamisti di Morsi nell’anno al potere è stato di non aver coinvolto sufficientemente i movimenti laici e giovanili nella transizione politica, insieme a una più generale incapacità politica per inesperienza nella gestione dei meccanismi di funzionamento dello stato, aggravata dall’attivazione strumentale da parte della giunta militare dei movimenti salafiti.

Questo ha permesso ad Abdel Fattah al-Sisi, in accordo con i partiti salafiti, di puntare il dito contro gli islamisti moderati ed estremisti come se fossero tutti terroristi da reprimere.

Questo modello di Stato contro il terrorismo è piaciuto ai principali leader occidentali e mediorientali. Tuttavia pochi si sono accorti nell’estate del 2013 quanto questo approccio non avrebbe fatto altro che alimentare il terrorismo internazionale. Da allora proliferano milizie radicali e gruppi affiliati allo Stato islamico (Isis) in Libia.
E l’Isis stesso ha trovato proprio nei vecchi quadri del Baath di Saddam Hussein, il principale appoggio per attuare il suo piano di espansione in Siria e Iraq.