Mancherebbero solo cinquanta giorni alle primarie del Pd. Sembra impossibile eppure è questa la proposta di Renzi alla minoranza del partito tentata dalla scissione. Il segretario si è fatto intervistare dal Tg1 della sera per confermare l’offerta, già arrivata ai bersaniani attraverso i proconsoli. Al solito, ha finito per complicare le cose. «Congresso, primarie, referendum tra gli iscritti: va bene tutto» ha detto Renzi. Riprendendo il gancio lanciato da Bersani nell’intervista del «penultimatum» all’Huffington post – «chiedo un luogo di confronto e contendibilità» prima delle elezioni – ma irridendolo forse un po’ troppo. Le prime reazioni della minoranza Pd, che pure appare in cerca di dialogo, non sono buone. Per Michele Emiliano si tratterebbe di «una simulazione che non cambia nulla».

Diverso il discorso se Renzi confermasse invece il congresso, prima delle elezioni. Ma il congresso, ribadisce il vice segretario Guerini, si farà a «scadenza naturale», cioè in autunno. Il nodo resta allora la tentazione del voto anticipato, mentre crescono attorno a Renzi le voci e sottovoci di chi punta al 2018. Per le primarie c’è un evidente problema di tempi. L’ex presidente del Consiglio, ovviamente, le immagina come un plebiscito sulla sua persona. Ma si dovrebbero incastrare in un calendario già troppo corto, dove la data del voto anticipato per Renzi resta quella dell’11 giugno. I gazebo del Pd allora potrebbero aprirsi il 26 marzo, una data in cui sicuramente non potrà esserci alcuna certezza sulla legge elettorale con la quale si dovrebbero tenere le elezioni anticipate. Quasi certamente, però, sarà una legge elettorale proporzionale in cui il leader del partito o della coalizione scelto nei gazebo non troverebbe spazio sulla scheda elettorale né potrebbe vantare un’automatica primazia nelle trattative post voto sulla formazione del governo. Primarie nel vuoto, insomma.

Forzata dalla fretta renziana, la commissione affari costituzionali della camera al primo giro di opinioni sulla nuova legge elettorale ieri ha dovuto per forza fermarsi e rinviare. Si aspetta la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum, solo annunciata il 25 gennaio con un comunicato stampa. Anche ai deputati è ormai chiaro che la Consulta non sarà parca di raccomandazioni al parlamento perché eviti di infilarsi nella terza legge elettorale incostituzionale di fila. Ragioni di buon senso oltre che una precisa prescrizione del regolamento hanno suggerito di anche al Pd di fermarsi per una settimana. Con la speranza che la Corte depositi la sentenza entro il 9 febbraio, quando saranno formalmente incardinate le proposte di legge. Quella del Pd è ancora il Mattarellum, ma è un pro forma. Nella realtà lo schema attorno al quale si lavora è l’estensione anche al senato di quel che resta dell’Italicum, che la Corte ha decapitato nel ballottaggio. Con qualche modifica. Il Pd – che con il voto di 5 Stelle e Lega ha conquistato la calendarizzazione per febbraio – punterebbe adesso ad appoggiarsi a Forza Italia – contrarissima alle elezioni anticipate – per estendere anche al senato il meccanismo dei capilista bloccati. I 5 Stelle non sono d’accordo, anche se fanno parecchia confusione sul punto. La loro proposta, depositata subito dopo la sentenza della Consulta, li prevede sia alla camera che al senato. La rappresentante in prima commissione alla camera, Dieni, vorrebbe escluderli solo al senato. L’ex componente del direttorio Sibilia sostiene che «accettare i capilista bloccati anche solo alla camera sarebbe un controsenso per il M5S, vogliamo toglierli anche lì». Avanza anche l’idea che siano gli iscritti a scegliere con il voto online. Di certo i grillini considerano la decisione di ieri di attendere la Consulta una perdita di tempo: «È pretestuoso dire che non si lavora in attesa delle motivazioni della Consulta».

Un’altra modifica che piacerebbe al Pd, in questo caso salvandola dalla legge che oggi è in vigore per il senato (cosiddetto Consultellum), è l’estensione alla camera della soglia alta di sbarramento, fissata all’8%. Soglia che però prevede le coalizioni e non il premio alla lista: pure questa è allora una modifica che ai democratici inizia a piacere (e di certo piace a Berlusconi). Lo testimoniano le parole di ieri del ministro Delrio, secondo il quale «è finita l’era del maggioritario puro, ora serve spirito di coalizione: il Pd deve essere il perno di una coalizione con l’ambizione del 40%». Delrio si è anche impegnato a trattenere in «ditta» Bersani: «A differenza di D’Alema lui è un vero ulivista, lo rispetto molto e credo che la sua richiesta vada ragionata», ha detto. Mentre Renzi al Tg1 avvertiva che «va bene tutto, ma chi perde il giorno dopo deve rispettare il vincitore». a. fab.