La decisione della Corte sul blocco dei meccanismi di adeguamento degli stipendi era prevedibile. Il timore dell’aggravamento dei conti (il “buco” di 35 miliardi) era in gran parte pretestuoso e sollevato solo per fare improprie pressione sulla Corte.

La Consulta, infatti, si era già pronunciata in passato sui limiti di legittimità costituzionale dei blocchi degli stipendi, ritenendo che essi fossero ammissibili solo a due condizioni: a) la sussistenza di esigenze di contenimento delle spese pubbliche; b) purché temporalmente limitate. Ora, se inizialmente la sospensione degli adeguamenti era stata limitata al pur lungo termine triennale, le due proroghe ulteriori (l’ultima nella legge finanziaria del 2015) avevano posto il meccanismo fuori dai limiti costituzionalmente imposti per come già definiti dalla giurisprudenza della Consulta. I giudici costituzionali non hanno fatto altro che prendere atto che il governo e la maggioranza parlamentare hanno proseguito indifferenti alle ragioni di costituzionalità per come indicate, rendendo stabile ciò che non poteva essere tale. A fronte della sordità alle ragioni costituzionali che altro poteva fare il custode della costituzione se non pronunciare una sentenza che ponesse fine al blocco a tempo indeterminato degli stipendi?

Né la Corte avrebbe potuto far retroagire gli effetti (dunque lo spauracchio del costo della sentenza era infondato): avrebbe in tal caso smentito se stessa e le sue precedenti decisioni di ammettere un blocco purché limitato nel tempo. Si tratta di un classico caso, dunque, di illegittimità costituzionale sopravvenuta. Dopo la sentenza n. 10 di quest’anno (quella sulla Robin Tax) era peraltro anche prevedibile la tecnica di dichiarare la incostituzionalità dal giorno del deposito della sentenza.

Perché allora si è voluta drammatizzare una situazione che in sé era apparsa sufficientemente chiara nel suo esito?
Probabilmente ha giocato la speranza di far cambiare opinione alla Corte e farle affermare un vincolo assoluto di bilancio che imporrebbe il sacrificio di ogni diritto sull’altare della crisi e del risanamento. Una prospettiva folle e costituzionalmente impraticabile. Si sarebbe voluto cioè – da parte di molti commentatori in modo esplicito – che al principio dell’equilibrio del bilancio, introdotto nel 2012 in costituzione, si assegnasse la forza di stravolgere l’intero sistema dei diritti definito in costituzione. Non si sarebbe trattato dunque di una semplice riforma – per quanto avventata e sbagliata – ma di una vera e propria contro-rivoluzione costituzionale: tutti i diritti sarebbero soggetti alle decisioni del governo (e dell’Europa) che definiscono le proprie politiche sociali in base a puri calcoli di contenimento di spesa. In questa prospettiva, si potrebbe giungere a giustificare qualunque riduzione di spesa in ambito sociale: scuola, sanità, assistenza. Tutti i diritti sociali (ma anche i classici diritti di libertà) costano, dunque è possibile tagliare senza limiti qualsiasi diritto pur di giungere ad un equilibrio ritenuto (dalle ideologie neoliberiste) sostenibile.

Per fortuna non è così. La costituzione impone la tutela dei diritti (quelli sociali, quelli dei meno abbienti in particolare), mentre al giudice delle leggi spetta l’interpretazione dei limiti entro cui possono farsi valere le ragioni di contenimento delle spese. Con le pensioni prima con gli stipendi ora, la Corte batte un colpo e ricorda al Governo che non tutto è possibile e non tutto può sacrificarsi in nome del bilancio. Prima ci sono i diritti fondamentali, poi l’economia.