È ragionevole credere che il cammino compiuto dallo spettatore, o dal lettore, oppure, ancora, dall’ascoltatore – alla fine, dal soggetto che dispone delle proprie capacità percettive -; l’itinerario che l’essere in balia delle sue percezioni compie in rapporto con l’opera, è cosa essenziale per la sussistenza dell’opera stessa.
Si tratta di partecipare, da parte del fruitore, all’opera, al processo creativo, anzi al processo creato (finito), che rivivifica ogni volta la materia data e la rende vivente, fremente: la interpreta, la modifica, l’infinisce e non la sfinisce, la equivoca sulla base dei dati fondamentali che l’opera detta inequivocabilmente. È lo spettatore critico – e il lettore, l’ascoltatore e così via –, cioè l’utente d’opere che non ne subisce passivamente gli assunti e le forme ma vi interagisce e vi si rispecchia, trovandovi dentro, nel migliore dei casi, scorgendo sulla superficie dello specchio, cangianti eppure congruenti versioni di sé. Ecco allora l’importanza della critica, di una critica seria, spontanea – in un tempo in cui serietà e onestà, fossero diffuse, dirimerebbero molte contraddizioni e inanità – nella misura dell’umiltà e dell’innocenza del suo dire: una critica che non è mai un asserire ma se mai un individuare vie interpretative tra le infinite possibili; un reinventare il testo, un immaginarlo se è vero che il segno è fluido e balugina, brulica, fagocita lo spazio e il tempo.

NELLA FATTISPECIE cinematografica, del film, si tratta di un’architettura fatta di specchi (spesso convessi, su cui le forme si deformano), tra cui si estendono intercapedini oscure, siderali, in cui perdersi, in cui il critico cerca di nuotare, di orientarsi, eppure spesso ritrovandosi per un momento, nel momento ineffabile in cui il cinema arriva ad apici di verità improvvisa. A questo sempre più raro versante critico apparteneva Nicola Curzio, scomparso lo scorso giugno a trentatré anni, autore di scritti penetranti quanto trasparenti, onesti direbbe Saba, come sorgivi nel loro rapportarsi direttamente, intimamente alle immagini con lo stupore e l’entusiasmo del fanciullino e la profondità di sguardo di chi è in dialogo con i filosofi, i teorici del cinema. Un’esperienza in fieri, in via di definizione, non intaccata da ansie di posizionamento nell’ingranaggio della critica italiana: ed è questa spontaneità e un che di diaristico, di laboratoriale, che la distingue e la sottrae alla retorica.

Ora Laterza pubblica un volume con tutti i suoi scritti, Prima che tutto torni buio (prefazione, molto intensa, di Oscar Iarussi), testi maturati negli anni di militanza nella rivista online «Uzak»; i quali risultano preziosi non solo nella loro intrinsecità, ma anche come esempio e sigla di una politica della critica, di certa critica; di un’adesione della pratica dello scrivere (di cinema) a quella del vivere. Ma, in sintonia con la politica (appunto) di «Uzak» (quella che fu una stagione di iniziati, di sognatori, di «invasati»), si tratta di una scrittura obliqua, raggirante l’oggetto, che spesso parte da dettagli o da anfratti, da elementi periferici, per arrivare – ma a spirale, portandosi appresso, a strascico, ricchezza di dati – al centro del film. E scrittura raggiante, anche, anzi soprattutto, a misura della preminenza dell’aspetto formale, stilistico, luminosissimo: non sono mai solo recensioni bensì scritture sui film, con una loro molto connotata sintassi e un lessico che viene anche dalla filosofia e dalla letteratura.

ECCO, si potrebbe dire «ricerca e forma», questi i due aspetti fondamentali di questa critica: una ricerca che dopo il lungo errare nelle lande impervie o altrimenti edeniche delle immagini in movimento, si riversa su di sé, sul se stesso riflesso sullo specchio prismatico del cinema; diviene ricerca di sé tra le forme spettrali eppure così carnali, così sostanziali del cinema. Scrive Curzio a proposito di Sarah Winchester, opéra fantôme di Bonello: «Il cinema è una questione di credenza. A suo modo chi crede nel cinema crede nei fantasmi. I film che preferiamo sono quelli che permettono a chi guarda di proiettare i propri spettri all’interno del quadro». Da qui articoli su Tsukamoto, Naderi, Vecchiali, Paul Thomas Anderson, il quale, col suo Inherent Vice suscita a Curzio uno dei periodi più belli e nitidi e onestamente poetici della sua scrittura quando «il ricordo sogna l’eternità di un momento: un’ultima immagine di noi due soli, insieme, prima che tutto torni buio e quel che resti sia solamente il rumore del mare».