Nel libro quarto di Gargantua e Pantagruele, François Rabelais immagina che i suoi eroi, in procinto di approdare sull’isola di Messer Gaster (personificazione delle urgenze più impellenti dello stomaco), in un punto non meglio precisato del Mar Glaciale Artico si imbattano in un singolare fenomeno. Sopra la loro nave aleggiano parole sospese che, con il sopraggiungere dell’inverno, si sono congelate al contatto con l’aria, trasformandosi in oggetti muti: «Noi vi discernemmo parole d’azzurro, di nero, parole dorate. Le quali, dopo d’essersi un po’ scaldate nelle nostre mani, fondevano come neve, e allora le sentivamo realmente, ma non le intendevamo, perché erano in lingua barbarica».

A distanza di secoli, Vladimir Sorokin, appassionato lettore di Rabelais, avrebbe ripreso questo episodio cambiandolo radicalmente di segno: non più parole divenute inintelligibili perché «intirizzite» dal freddo, bensì interi libri arsi, di cui restano solo brandelli inceneriti che volteggiano lievi e silenziosi come farfalle. Se la letteratura antiutopica del ’900, da Fahrenheit 451 in poi, è piena di roghi di libri e se le opere «scandalose» dello stesso Sorokin sono state bruciate da attivisti filo-ortodossi sulla pubblica piazza, la prospettiva aperta dal suo ultimo romanzo tradotto in italiano è in realtà ancora più sconfortante, poiché centrata non tanto sul tema di una censura imposta dall’alto, quanto sulle imprevedibili direzioni in cui possono evolvere (o involvere) i nostri bisogni culturali.

In Manaraga (uscito per Bompiani nella vivace resa di Denise Silvestri) l’occhio caustico dello scrittore russo fissa un ipotetico futuro (neanche troppo distante, come si scoprirà alla fine), in cui i pochi libri cartacei sopravvissuti alla rivoluzione digitale sono relegati alle teche dei musei o agli scaffali dei bibliofili: nessuno sembra più avvertire l’esigenza di leggerli. Al tempo stesso, però – e l’amara ironia del romanzo sta in questa improbabile compensazione – singoli esemplari trafugati, pagati a peso d’oro, vengono bruciati davanti agli occhi di gourmand modaioli, disposti a pagare cifre folli affinché cuochi appartenenti a una fantomatica organizzazione clandestina – la «Cucina» – li arrostiscano sulle loro braci come pietanze ricercate. Nell’universo futuribile di Manaraga l’oggetto-libro viene «consumato» esclusivamente sub specie della sua irreversibile consunzione fisica, e la neolingua creata dai cuochi riflette la natura paradossale di questo processo: la preparazione dei piatti è detta in gergo «lettura», i libri sono «legna», «ceppi» o «ramaglia», «leggere» e «dare alle fiamme» sono una cosa sola. Finché, un bel giorno, compaiono speciali apparecchiature in grado di replicare in migliaia di esemplari le introvabili edizioni cartacee.

Con la consueta maestria stilistica, Sorokin crea un congegno narrativo perfettamente plausibile, di cui proviamo insieme a smontare i meccanismi, in questo incontro che si è svolto a Palermo al «Festival delle letterature migranti». Di recente, lo scrittore russo ha anche intensificato la sua attività di drammaturgo e librettista: stasera alla Staatsoper di Berlino si terrà la prima di Violetter Schnee, opera del compositore svizzero-austriaco Beat Furrer, basata su un suo testo.

Lei ha affermato di non poter fare a meno di cambiare spesso pelle letteraria e, in effetti, «Manaraga», sia stilisticamente che per genere, è molto diverso dal precedente «Telluria». Qual è stata la genesi del romanzo?
L’idea per scrivere Manaraga mi è venuta in una pizzeria di Charlottenburg, a Berlino: insieme a due amici – uno slavista e sua moglie, una poetessa americana – ero lì a fissare il forno a legna e, all’improvviso, ho «visto» questa scena: Guerra e pace e i romanzi di Turgenev avvolti dalle fiamme… e ho pensato a quanto calore si potrebbe ricavare dalla loro combustione. La mattina dopo ho cominciato a scrivere. La stesura di Telluria mi è costata molte energie e, una volta arrivato alla parola fine, non sono più riuscito a scrivere una sola riga per tre anni. Manaraga è stato un nuovo inizio, anche se in realtà viene dallo stesso universo di Telluria, postdatato: non più un medioevo proiettato in un futuro in cui guerre e violenze sono all’ordine del giorno, ma una specie di rinascimento: gli esseri umani cominciano pian piano a ricostruire il loro mondo, a provare nuovi bisogni…

A proposito dell’ambientazione temporale, il lettore capisce che l’azione si svolge in un futuro non troppo lontano solo verso la fine del libro, quando gli viene fornito un riferimento cronologico. Sono rimasta stupita scoprendo che si era «soltanto» nel 2037. Per lei era importante creare questo effetto a sorpresa?
Sì, volevo che il lettore sapesse di trovarsi in un avvenire imprecisato, non importa se distante o vicino… Ormai è questa la prospettiva che mi interessa: anche per scrivere del presente devo osservarlo da un futuro immaginario, solo la distanza mi permette di metterlo a fuoco, come se lo guardassi col cannocchiale. La situazione attuale in Russia è talmente grottesca che mai sarei capace di descriverla posizionandomi nel presente. Forse, non è un caso se in questi ultimi vent’anni non è apparso un solo grande romanzo in grado di raccontare la società post-sovietica. Ma credo che, non appena finirà questa congiuntura politica, qualcuno lo scriverà.

C’è davvero poca Russia, in effetti, in «Manaraga»: ciò che resta di quel paese è la sua letteratura. E Geza, come gli altri cuochi cosmopoliti della «cucina», definisce la propria identità nazionale non sulla base del luogo in cui è nato (l’Ungheria), bensì della tradizione letteraria che sceglie di bruciare. Voleva forse alludere satiricamente a questa Europa schizofrenica, dove si erigono muri per proteggere appartenenze etniche che, in realtà, la società globale rende sempre più volatili e fantasmatiche?
Volevo scrivere, con Manaraga, un libro sull’Europa, sulle nostre paure, sul presentimento che la letteratura, così come la conosciamo, sia destinata a scomparire di fronte all’invasione delle serie televisive e della cultura pop. È un processo inevitabile al quale non abbiamo molto da opporre, forse soltanto l’individualità di singole esperienze. Anche per questo ho scelto di far inserire nelle traduzioni di Manaraga un frammento sull’odore dei libri che nell’originale russo non c’è, perché mi è venuto in mente dopo. Ricordo ancora il profumo dell’edizione americana Ardis di Lolita trafugata in Urss, che lessi negli anni Settanta. Ogni grande libro è legato anche a una sensazione olfattiva, e chi legge è come un cuoco costretto ad annusare, prima ancora che ad assaggiare, ciò che sta cucinando.
In «Manaraga» nessuno legge più, eppure ci sono ancora dei tipi strambi che si ostinano a scrivere a mano testi che verranno utilizzati, anch’essi, a fini gastronomici. Il bisogno di scrivere è più tenace del desiderio di leggere?

Certo, lo vediamo ogni giorno: su Facebook tutti sono diventati scrittori e si offendono se nessuno legge i loro post. Io credo che la scrittura non morirà mai, perché nasce da un’esigenza metafisica, dalla sensazione che il mondo, così com’è, sia privo di qualcosa, e che lo si debba in qualche modo completare.

La legalizzazione della pratica che lei chiama del book’n’grill, per quanto inverosimile, ricorda l’inizio degli anni Novanta, quando con l’abolizione della censura, i testi che prima circolavano in samizdat cominciarono a essere pubblicati, e da frutti proibiti, dotati di un’aura tutta particolare, si trasformarono in oggetti per il consumo di massa…
Nessuno mi aveva mai fatto notare prima questo aspetto. Effettivamente, tra il samizdat e la situazione descritta in Manaraga c’è più di un’analogia: anche Geza a suo modo è un diffusore di libri, li rimette in circolazione, seppure solo per bruciarli. In Unione Sovietica, tuttavia, esisteva un deficit di letteratura buona e onesta, non di letteratura in generale come in Manaraga. E noi lettori del samizdat potevamo usufruire soltanto di copie, mentre l’originale rimaneva inattingibile. La mia «cucina», al contrario, si occupa della distruzione dell’originale.