Berlusconi, tanto per cambiare, ha in mano il boccino. Ma stavolta il dilemma si configura più sofferto del solito: deve scegliere a quale albero impiccarsi. Fuor di metafora, se rendere conclamato il tramonto della sua lunghissima leadership sulla destra italiana, piegandosi al diktat di Salvini e Giorgia Meloni (con dietro il regista Rampelli) o se sfidarli col fortissimo rischio di arrivare quinto a Roma, senza conquistare neppure un consigliere, e arrivare, per altra via, al medesimo punto. Si dimostrerebbe infatti così, nella maniera più cocente, che la sovranità che esercitava sull’elettorato di destra è svaporata.

Oggi Giorgia Meloni ufficializzerà la candidatura. Ieri, come annunciato già dal giorno prima, ha riunito la presidenza dei Fratelli d’Italia che, come cerimoniale impone, le ha chiesto di concorrere. Lei si è presa 24 ore per decidere e ha incaricato i suoi comunicatori di far sapere a tutti che è davvero incerta e il passo finale è ancora in forse. Però sembra più una mossa tesa a mantenere aperta la trattativa con il Berlusca furioso che una reale esitazione. Anche perché la sua eventuale rinuncia non comporterebbe un ritorno all’ovile del Carroccio, che quasi certamente a quel punto convergerebbe su Francesco Storace.

Dunque, a meno di una improbabile sorpresa, a decidere se ci sarà una candidatura unitaria della coalizione che dovrebbe proporsi per governare il Paese tra due anni o se l’intero progetto naufragherà a Roma sarà l’ex cavaliere. Per ora sembra deciso a resistere. Di certo lo era ieri mattina quando, sfidando un’alluvione di dichiarazioni esageratamente scandalizzate, qualcuna per davvero, molte altre per puro calcolo politico, ha ripreso l’argomentazione per la quale era stato appena crocefisso Bertolaso: «E’ chiaro che una mamma non può fare un lavoro terribile com’è quello del sindaco di Roma». Segue frecciata all’indirizzo di chi mal la consiglia, al secolo Matteo Salvini. Renzi e Roberto Giachetti non perdono la ghiotta occasione per spolpare la facile preda. «Certo che una mamma può fare il sindaco», assicura il primo. «Se gli uomini invece di dare consigli alle donne cambiassero più pannolini il Paese sarebbe migliore», infierisce il secondo. E’ solo propaganda: in fondo a mettere maternità e Campidoglio in contraddizione era stata proprio la futura mamma.

A sera Berlusconi non aveva cambiato idea: «Colpiscono Bertolaso per affondare me dimostrando che non sono più io il leader». Eppure il dubbio che la parola definitiva dell’ex sovrano non sia per nulla definitiva resiste. Conoscendo l’uomo, non sarebbe la prima volta. Il primo a saperlo è proprio Bertolaso che, da Porta a Porta, procede con massima cautela: «Vedremo. Devono decidere. Si parla di una candidatura unitaria».

Il fatto è che l’un tempo cavaliere non deve vedersela solo con le proprie personali indecisioni, ma anche con le pressioni di un partito imbufalito non solo nella Capitale ma forse ancor di più a nord. Una rottura a Roma rischia forte di innescare una serie di esplosioni a catena. Berlusconi potrebbe rispondere alla defezione leghista ritirando l’appoggio alla candidatura di Lucia Bergonzoni a Bologna, e probabilmente una volta apertosi il conflitto sarebbe costretto a farlo. La Lega a sua volta sarebbe a quel punto quasi costretta a piantare in asso Stefano Parisi a Milano. Per il capo l’esito sarebbe tombale, ma per i suoi aspiranti consiglieri comunali pure. Non vedrebbero palla. Soprattutto, non vedrebbero seggi.

Ecco perché il governatore ligure Giovanni Toti, già ventriloquo del capo, arriva per la prima volta a smentirlo: «Ma certo che una mamma può fare la sindaca». E chi mai oserebbe dubitarne? Ecco perché l’intero partito del nord martella il quartier generale. E soprattutto ecco perché proprio Toti, in tandem con il capo dei senatori azzurri Paolo Romani, si sta prodigando per organizzare un summit tra i tre candidati, Bertolaso, Meloni e Storace, nella speranza di salvare in extremis la situazione. Proprio a un passo dal disastro.