L’interesse per la figura di Giorgio Pressburger non è venuta spegnendosi con la sua morte, avvenuta il 5 ottobre del 1917, all’età di 80 anni. Chi è stato chiamato, da quel’anno, a raccoglierne l’eredità spirituale ed intellettuale è il regista Mauro Caputo che, con lo scrittore d’origine ungherese, ha intrattenuto un sodalizio artistico e culturale, producendo e realizzando intorno alla sua opera ben quattro film: dall’iniziale «Messaggio per il secolo» ad una vera e propria trilogia, in procinto di uscire in un cofanetto per l’Istituto Luce, il cui ultimo pannello, «La legge degli spazi bianchi», è stato presentato lo scorso settembre al Festival di Venezia. Questa è una delle tante iniziative su Pressburger bloccate dall’emergenza sanitaria al pari di un convegno previsto all’Istituto Treccani l’8 maggio scorso che, secondo gli organizzatori, sarà al più presto riprogrammato. Ma il mondo pressburgheriano, come i suoi personaggi, è imprevedibile. E infatti, Caputo, instancabile e impegnato nella post-produzione di un nuovo documentario sui migranti della rotta dell’est, non ha stoppato i piani editoriali che riguardano l’uscita di nuove e arricchite edizioni dei libri di Pressburger, la cui produzione narrativa, saggistica, giornalistica si sta rivelando sempre più imponente. E dal computo e a dar spago all’archivio si tralasciano le note di regia, le sceneggiature, gli adattamenti teatrali, televisivi e radiofonici. Ecco che, dopo la riedizione lo scorso anno per Treccani di «Sulla fede» (libro estremo che tenta un’interrogazione originale su ciò che muove l’aver fede, a partire dalle radici ebraiche del suo autore), è la volta di Marietti editore che ripubblica – a distanza di trent’anni dalla prima uscita sempre per la casa editrice bolognese -, proprio i racconti di «La legge degli spazi bianchi».

A proposito di questo libro lo stesso Pressburger, in una rapida biografia di sé in terza persona, ebbe ad affermare: «La legge degli spazi bianchi sono cinque racconti di medici che affrontano altrettanti casi di malattie inspiegabili, posseduti ora dal disincanto del mestiere, ora dalla disperazione». C’è molta triestinità sveviana nella narrazione di Pressburger, molto senso del confine (intimo più che geografico) nella sua prosa esatta e mai troppo sicura di sé». Quantunque le sonde più prossime, convocate con Svevo a cartografare e a polarizzare quest’intimità, hanno i nomi di Kafka (con richiami a «Il medico di campagna») e Freud (spirito guida di un’altra trilogia, stavolta letteraria, «Storia umana e inumana»), protagonisti traslucidi di molte avventurose imprese artistiche e intellettuali, talvolta travasate in film e festival, le cui iconiche effigi sembrano ottenebrare gesti e pensieri dei personaggi dei racconti.

Poggiate su memorie mediche e libri scientifici, puntualmente riportate ad esergo d’ogni racconto, queste narrazioni privilegiano – e si fa per dire, quando sostanziano l’’ntero palinsesto degli accadimenti – l’irruzione dell’’natteso e dell’inspiegabile nella routine quotidiana, mai immobile, ma dispiegata nel tempo e nei condivisi spazi vitali. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta è la perdita di sé come uomo che pensa, scrive e parla a sconvolgere l’esistenza, per giunta opaca nei rapporti con i congiunti, di un medico che dell’interrogazione sui misteri più profondi della vita ha fatto la missione del suo mestiere. Mentre, ne «Il morbo di Bahdy», un dottore lega la propria parabola sociale alla incurabilità dello stesso male, un morbo che s’insinua nei corpi, affligge e abbatte tre fratelli a distanza di decenni l’un dall’altro. In tutti i racconti, Pressburger saggia il senso della perdita, l’oscurità appollaiata sulla spalla anche della più bella vita, proprio di quel vivere che né scienza né «altro» può in fin dei conti svelarsi fino in fondo.