Sono tempi strani i nostri: se si parla in difesa della Costituzione si rischia di essere considerati «conservatori»; se ci si permette di criticare le riforme costituzionali, che possono essere peggiorative, si viene accusati di avere dei “preconcetti ideologici”. Persino l’antifascismo è diventato un “pregiudizio”. Per sfuggire a tutto ciò proviamo allora a svolgere alcune considerazioni di carattere rigorosamente empirico, dati di fatto difficilmente contestabili.

In questa prospettiva dovremmo partire da quanto è stato esplicitamente scritto nei programmi elettorali, oltre ad essere orgogliosamente rivendicato all’unisono da tutti i leader dei partiti della pur composita coalizione di destra che si accinge a governare. Presidenzialismo e autonomia differenziata delle regioni sono i due principali obiettivi politico-istituzionali che si vogliono raggiungere. Qualunque sia il giudizio nel merito, in ogni caso – si deve pragmaticamente dedurre – ci troviamo di fronte a due riforme che ci consegnerebbero ad un altro sistema rispetto a quello disegnato con la Costituzione repubblicana. Nessuno credo possa seriamente negare, infatti, che la modifica contestuale della forma di governo e della forma di Stato produca lo stravolgimento del nostro attuale assetto dei poteri e dunque, conseguentemente, esprima con nettezza la volontà di fondare un’altra Repubblica.

Almeno una conseguenza dovremmo allora trarla da questa situazione di fatto, dovremmo ammettere che la posta in gioco è il futuro della Costituzione. Chi si riconosce ancora nei valori della Costituzione è avvertito, domani non potremmo dire «non lo sapevo». In caso, dovremmo ammettere che, pur se eravamo consapevoli di quel che ci aspettava, non siamo stati in grado di impedirlo; sperando di non dover invece confessare che non abbiamo fatto nulla per evitarlo, neppure quel poco che potevamo fare.

Un approccio empirico può essere adottato anche per alcune considerazioni nel merito delle due proposte avanzate dalla destra. Limitiamoci per ora ad alcuni rapidi rilievi sul presidenzialismo.
Si dice: non è un male in sé. Ed in effetti, non si può che constatare che esistono forme di governo democratiche, diverse dalla nostra, che prevedono l’elezione diretta del Capo dello Stato. Gli Stati Uniti o la Francia sono gli esempi solitamente richiamati. Al pari, però, non può negarsi che esistono altri paesi in cui l’elezione popolare del Presidente è all’origine dei tratti autocratici di quei regimi, dall’Ungheria alla Russia. Dunque, sulla base dei fatti, deve ammettersi che il bene o il male del presidenzialismo dipende dal contesto (in realtà anche dalle diverse idee di democrazia, ma di queste abbiamo detto che qui non parliamo).

Ed è proprio guardando ai diversi contesti che si scorge qual è la condizione necessaria se si vuole evitare la degenerazione del presidenzialismo in autocrazia: l’esistenza di un forte equilibrio tra i diversi poteri, tra Governo e Parlamento in particolare.
In fondo si tratta della traduzione in concreto del sacro principio della divisione dei poteri e dei “checks and balances”.

L’osservazione dei fatti, dunque, dimostra come tutte le forme di governo presidenziali possono degenerare – a volte tragicamente – in mancanza di un tale solido presupposto, si pensi alle diverse situazioni nei paesi dell’America latina o nei paesi dell’est europeo. Ma si rifletta anche sulle difficoltà delle più consolidate forme di governo presidenziale. L’assalto a Capitol Hill ne rappresenta un segnale inquietante.

Allora la domanda che dovrebbero porsi tutti coloro che si vogliono attenere ai fatti è chiara: vogliamo correre il rischio di un presidenzialismo senza contrappesi? Una possibilità di degenerazione che deve essere considerata reale nel nostro Paese a causa dello stato di grave debolezza del Parlamento. Più in generale è la mancanza di forti contropoteri che rende “pericolosa” una scelta presidenzialista in Italia. Questo al di là di ogni ulteriore considerazione di principio o di natura propriamente politica, ma limitandoci a valutare unicamente gli equilibri istituzionali. In questa specifica prospettiva nessuno può seriamente equiparare il nostro organo legislativo al potentissimo Congresso statunitense, che non esita a bocciare tutte le richieste presidenziali non gradite. Nel nostro Paese un Parlamento debole, che già oggi si trova in condizione di minorità rispetto al Governo (vero dominus dei lavori parlamentari), finirebbe per indebolirsi ulteriormente, rischiando così di trovarsi al servizio di un despota democraticamente eletto. In un contesto del genere, prima di ogni altra cosa ci si dovrebbe chiedere se non sia più saggio cercare di far funzionare il Parlamento meglio di quanto non abbia sin qui fatto, razionalizzandone i lavori, i compiti e il ruolo. Perché di questo avremmo certamente un gran bisogno.

A queste considerazioni se ne deve aggiungere un’ulteriore, fondamentale nel contesto italiano che assegna alla presidenza della Repubblica il ruolo decisivo di garante politico della Costituzione. Un compito che si è rivelato sempre più spesso risolutivo, soprattutto nelle ricorrenti fasi di lacerante crisi del sistema politico. Ora, è un fatto che, qualunque sia la scelta sul tipo di presidenzialismo e gli effettivi poteri assegnati ai singoli organi costituzionali, un Presiedente eletto verrebbe trasformato nel titolare di poteri di governo, e non sarebbe più un garante. Dovremmo dunque rinunciare all’unico organo realmente autorevole di salvaguardia degli equilibri costituzionali attualmente operante. Non a caso si è fatto presente che subito dopo la riforma Mattarella dovrebbe dimettersi per lasciare il posto a ben altra figura, con poteri di tutt’altra natura. Possiamo permettercelo?