«Qui non si vota». I filorussi di Donetsk hanno espresso il loro parere determinato, circa il destino delle elezioni presidenziali che oggi si svolgono in Ucraina. Una consultazione fortemente voluta da Kiev e dal governo nato dalla battaglia di Majdan, per presentare a Unione europea, Nato e Fondo monetario, una parvenza di legittimità, tale da poter riceve aiuti e sostegno economico. Ieri ci sono stati scontri dialettici tra Mosca e Kiev, a sottolineare l’ambiguità di questa tornata elettorale. Al forum economico di San Pietroburgo, Putin è tornato all’origine di tutta la crisi, ovvero il rischio di un allargamento a est della Nato.

«Dov’è la garanzia che dopo questa nuova rivoluzione colorata l’Ucraina non finisca nella Nato? Nessuno in questi 20 anni ha mai discusso con noi di questo tema, ci hanno sempre risposto che ogni paese è libero di scegliere». Da Kiev invece il premier ad interim Yatseniuk ha nuovamente accusato la Russia di «sponsorizzare» i «banditi» che operano nell’est del paese, mentre uno dei candidati nazionalisti alla presidenza ha rivendicato (su social network) l’omicidio di uno dei leader dei filorussi di Donetsk, avvenuto nella serata di venerdì.

Il clima dunque rimane teso. Per Kiev questa elezione presidenziale è a tal punto importante, da provare a placare i «separatisti» delle regioni orientali, etichettandoli come «terroristi» e scatenando nell’area la Guardia nazionale, la polizia e i gruppi paramilitari. Non tutto ha funzionato per il verso giusto, se oggi a votare andrà solo la metà del paese. Le regioni orientali hanno assistito alla presa del potere da parte di governanti nominati per acclamazione dalla Majdan.

Hanno denunciato la presenza dei neo nazisti nel governo e tra i paramilitari e hanno specificato che avrebbero partecipato alle elezioni solo a seguito di una negoziazione cui fossero stati presenti e in favore di una riforma costituzionale che garantisse maggiori autonomie alle zone orientali del paese. Kiev invece, forte del sostegno di Europa e Stati uniti, è andata dritta per la sua strada, senza placare l’offensiva militare e inaugurando un «tavolo di unità nazionale» in cui era presenta l’ambasciatore americano, ma non i rappresentanti delle regioni ribelli.

L’esito del voto è scontato. Vincerà l’oligarca Poroshenko, a dimostrazione di come i problemi e le dinamiche socio politiche dell’Ucraina, non siano specificamente riguardanti il fatto di essere o meno in Europa. A Yanukovich, sorretto dagli oligarchi, si sostituirà direttamente un altro oligarca, il re del cioccolato mondiale, supportato, naturalmente, da altri tycoon nazionali. Alcuni di questi hanno compiuto straordinarie giravolte, passando dal finanziare l’ex presidente, all’invitare Majdan a picchiare duro contro le regioni ribelli (di fatto il bacino elettorale dell’ex Presidente). Altri hanno mosso gli operai delle proprie miniere contro i separatisti, sperando di lanciare un segnale a Kiev.

Altri ancora, sono stati richiamati in patria, distratti da loro affari, per guadagnarsi la stima di Majdan. Secondo molti osservatori, la regia di tutto questo movimento di oligarchi, destinati nuovamente a regnare nel paese, potrebbe essere proprio Julia Tymoshenko, abile a cavalcare la protesta di Kiev, quando era ancora in carcere, e riempire le caselle più importanti di governo e istituzioni con uomini del suo partito Patria.

Sullo sfondo di queste elezioni c’è naturalmente la Russia di Putin. Dopo l’annessione della Crimea, Mosca è parsa tornare a miti consigli riguardo l’Ucraina, favorendo addirittura aperture diplomatiche, come il ritiro delle truppe dai confini e l’accettazione di elezioni che per quanto considerate irregolari e frutto di un colpo di Stato, «saranno accettate» da Mosca, come ha specificato Putin.

Domani la questione delle regioni orientali, alcune delle quali hanno già chiesto più volte l’annessione alla Federazione russa, tornerà d’attualità; se l’esito è scontato, lo è altrettanto la conseguenza delle presidenziali: la constatazione di un paese ormai spaccato, inesorabilmente.