«Habemus Euco presidentum», in anglo-latino il primo ministro lussemburghese, Xavier Bettel, ha rivelato ieri nel tardo pomeriggio che i capi di stato e di governo europei, riuniti a Bruxelles fino a oggi, hanno risolto in fretta la questione: il polacco Donald Tusk è stato riconfermato alla presidenza del Consiglio europeo, contro il parere del suo paese d’origine. La Polonia non ne voleva sapere, perché Tusk ha criticato la svolta anti-democratica in corso a Varsavia, perché è considerato il «candidato tedesco» che ha appoggiato l’apertura ai rifugiati e il programma di redistribuzione tra i paesi Ue, e addirittura per motivi psicologici il grande manovratore da dietro le quinte, Jaroslaw Kaczynski, accusa Tusk di essere stato responsabile, quando era primo ministro, dell’incidente aereo che ha causato la morte del suo gemello Lech nel 2010.

Kaczynski ha mandato avanti la prima ministra, Beata Szydlo, per tentare di impallinare la riconferma del presidente del Consiglio dal 2014. Beata Szydlo aveva proposto un europarlamentare sconosciuto ai più, Jacek Saryusz-Wolski per sfidare Tusk. Ma alla fine i 28 hanno tagliato corto a quest’ennesima polemica tutta interna alla Polonia, «non siamo ostaggi del governo polacco». Varsavia ne esce isolata. Una prospettiva che promette male, in un momento in cui la Ue discute di Europa a «cooperazioni differenziate», cioè un’Europa a più velocità. Resta il fatto che la conferma di Tusk fa sì che tutti i presidenti delle istituzioni europee – Commissione, Parlamento e Consiglio – sono controllati dal Ppe (destra).

Il Consiglio europeo oggi deve discutere della preparazione del summit di Roma, il 25 marzo, per i 60 anni della costruzione europea, senza Theresa May, ormai con un piede fuori (anche se non è stato ancora attivato l’articolo 50). Roma dovrebbe essere un’occasione per «rilanciare l’Europa» ammaccata dalla Brexit. Ma per il «rilancio» si dovrà comunque aspettare le elezioni tedesche, a settembre. I principali dirigenti in carica, che si sono riuniti a Versalles lunedì scorso, sono tutti a fine corsa: non solo Angela Merkel, sfidata in casa da Martin Schulz (Spd), ma soprattutto François Hollande, alle ultime settimane di presidenza e Paolo Gentiloni, mentre Mariano Rajoy è alla testa di un governo di minoranza. Sul tavolo dei 27 c’è il Libro bianco di Jean-Claude Juncker, presentato all’inizio del mese a nome della Commissione. Il Libro bianco sposa di fatto il progetto dell’Europa a più velocità. In 29 pagine, Juncker propone cinque ipotesi (una sesta – la disintegrazione – è evidentemente scartata), altre due restano improbabili (ridurre la Ue a un semplice mercato unico oppure, all’opposto, andare verso il federalismo), mentre restano tre strade percorribili: lo statu quo, evitando di affrontare i conflitti in corso, a cominciare da quello sulla spartizione del «fardello» dei migranti; un’Europa a più velocità e l’ipotesi «more or less», con la Commissione disposta a tirarsi indietro in alcuni campi, come le leggi sociali, quelle sulla salute, gli aiuti statali, in cambio di un vero potere su politiche comuni più forti, a cominciare dall’Europa della difesa, con un esercito europeo, sul controllo delle frontiere esterne, sulla gestione dei migranti (con un’Agenzia per l’asilo), sull’anti-terrorismo e sul commercio internazionale.

Nei fatti, l’Europa a più velocità già esiste. Il principio di permettere a chi vuole di approfondire l’unione è applicato per l’euro (19 paesi su 28), per Schengen (26 paesi, di cui 22 della Ue e 4 associati), per gli accordi sull’immigrazione e l’asilo, per la cooperazione giudiziaria e di polizia, c’è un embrione nella difesa, oggi al centro di tutti gli interessi in vista di un «rilancio». Le «cooperazioni rafforzate» propriamente dette sulla carta esistono dal 2002, dal vertice di Nizza. Ma hanno funzionato poco, solo per il brevetto europeo (25 paesi), per la cooperazione sui divorzi (tra 14) e la famosa Tassa sulle transazioni finanziarie, che ha un percorso difficile e dovrebbe venire applicata a 11.