Il Vaticano è in fibrillazione per la «preghiera per la pace» prevista questa sera a Roma con papa Francesco, il presidente palestinese Abu Mazen e il capo dello stato israeliano uscente Shimon Peres. «La preghiera può tutto. Utilizziamola per portare pace al Medio Oriente e al mondo intero. #weprayforpeace», è il testo del tweet lanciato ieri da Bergoglio con l’hashtag dell’evento. Scarso fino a venerdì è stato l’interesse in Israele per l’iniziativa, che al contrario è seguita con attenzione dai media e dal mondo politico palestinese. A Ramallah – dove è stato incassato con (eccessivo) entusiasmo il via libera di Washington, dell’Europa e dell’Onu al nuovo governo palestinese appoggiato da Fatah e Hamas, contro il volere di Benyamin Netanyahu – la «preghiera per la pace» promossa dal pontefice è vista come un altro “colpo” alla politica del pugno di ferro portata avanti dal primo ministro israeliano, escluso dall’evento. E in parte lo è. Per questo il governo Netanyahu ha controllato e concordato con il Vaticano ogni più piccolo dettaglio di ciò che accadrà e si dirà oggi a Roma. Per evitare che la preghiera “pacifista” offra al palestinese Abu Mazen l’opportunità per affermarsi agli occhi del mondo come un leader politico pronto alla pace contro un premier israeliano che spara a zero contro tutti, inclusi gli alleati americani, e rilancia continuamente la colonizzazione dei Territori occupati. Senza dimenticare che Netanyahu considera il novantenne Peres una mina vagante.

Nessuno si illuda. Netanyahu era e rimane forte, appoggiato dalla maggioranza della sua opinione pubblica e sostenuto dal suo governo ultranazionalista dove si segnalano solo le deboli critiche della ministra della giustizia Tzipi Livni. Tuttavia in questa fase il premier israeliano non può permettersi altre “sconfitte”. Lo sottolineavano non pochi degli ultimi editoriali apparsi sulla stampa israeliana. Pesante quello scritto da Lilach Weisman sul giornale economico Globes, secondo il quale mentre il paese dibatte su chi sarà il nuovo presidente (tra qualche giorno), il mondo sta isolando Israele a causa della linea di Netanyahu. Il primo ministro – nota Weisman – «tra breve si ritroverà di fronte un capo dello stato israeliano che non voleva (Reuven Rivlin), un governo palestinese di cui ha chiesto (invano) il boicottaggio e un presidente ostile a Washington. Sognava la scomparsa del partner di pace palestinese e invece si ritrova senza un partner americano».

Netanyahu perciò stasera seguirà con molta attenzione i gesti e i discorsi che saranno pronunciati nei giardini vaticani da dove papa Francesco innalzerà l’invocazione per la pace in Medio Oriente insieme a Peres e Abu Mazen. «E’ un momento di invocazione, di preghiera ma soprattutto di invocazione a Dio per il dono della pace. E’ una pausa rispetto alla politica… (il papa) non vuole entrare in questioni politiche del conflitto israelo-palestinese», si è preoccupato di chiarire uno degli “organizzatori”, il custode francescano di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, da sempre vicino a Israele. I due presidenti perciò non saranno accompagnati da rappresentanti politici né dei due governi. Saranno accolti a Santa Marta da papa Francesco che si intratterrà prima con l’uno poi con l’altro in un breve colloquio. La cerimonia si dividerà in tre momenti per ciascuna delle tre fedi monoteistiche, ognuna prevederà una preghiera sulla creazione, una richiesta di perdono e un’invocazione alla pace. Al termine interverrà il Papa con la sua invocazione della pace e altrettanto faranno Peres e Abu Mazen. Quindi la stretta di mano e il momento in cui verrà piantato un ulivo. Infine i quattro entreranno nella vicina Casina Pio IV per un colloquio riservato, dopo il quale Peres e Abu Mazen lasceranno il Vaticano.

I palestinesi nei Territori occupati avrebbero voluto che durante l’incontro a Roma si parlasse della condizione dei 125 prigionieri politici in sciopero della fame da sei settimane contro la “detenzione amministrativa” (carcere senza processo) praticata da Israele. Sulla protesta è intervenuto anche il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che ha espresso grande preoccupazione per il deterioramento delle condizioni di salute dei prigionieri e ha chiesto a Israele di rilasciarli o di garantire loro un processo equo.