Continua l’evasione degli italiani da un paese prigione, impoverito e rancoroso dove cresce il lavoro discontinuo, il part-time involontario, il precariato a tempo determinato e di breve durata. Dall’inizio della crisi , da cui non si è mai usciti, il loro numero è triplicato: quasi 115 mila persone nel 2017 dai 40 mila emigrati nel 2008. Il rapporto sul «mercato del lavoro», reso noto ieri dal Ministero del lavoro, Istat, Inps, Inail e Anpal smonta, ancora una volta, la leggenda più ricercata dalla narrazione del vittimismo nazionale: di questo enorme numero di persone emigrate dall’Italia, solo una parte è in possesso di un titolo di studio medio-alto: 33 mila ha un diploma, 28 mila almeno la laurea l’anno scorso. Numeri significativi, rivelatori della condizione del lavoro culturale (il 18% dei dottori di ricerca vive all’estero), che vanno tuttavia compresi all’interno di un fenomeno di massa irriducibile alle retoriche sulla «fuga dei cervelli». Se esiste un’emergenza, tra le tante, questa è l’emigrazione degli italiani, non la molto propagandata «invasione» dei migranti da parte delle destre e dai populisti al governo, e all’opposizione. Il rapporto sul mercato del lavoro è la smentita del senso comune razzista.

NELLA MIGRAZIONE – degli italiani, come di coloro che arrivano nel nostro paese – andrebbe riconosciuto anche un atto di resistenza soggettiva contro la precarietà; l’assenza di misure di welfare universali; i tagli alla spesa pubblica, le convulsioni della rappresentanza politica che nulla ha fatto per affrontare problemi strutturali e, ancora oggi, è impotente rispetto ai tagli colossali (circa 9 miliardi) a scuola, università e ricerca realizzati dal governo Berlusconi tra il 2008 e il 2011. In questa cornice il rapporto considera anche la struttura economica basata su piccole imprese posizionate sui segmenti bassi della produzione. E la domanda di lavoro è talmente bassa da risultare inadeguata rispetto al sapere generale posseduto da una forza lavoro altamente istruita. Presi con la necessaria prudenza, i dati del rapporto parlano di 5 milioni 569 mila persone, il 24% della forza lavoro attiva, il 35% di questa porzione è composta da diplomati e laureati. Il duplice problema della sotto-occupazione e della sovra-istruzione colpisce, in maggioranza, i precari dipendenti a termine e, in particolare, nei settori alberghiero, della ristorazione e dei servizi alle famiglie.

È OPPORTUNO VALUTARE il fatto che la mobilità della forza lavoro si inserisce nelle asimmetrie del mercato del lavoro di arrivo. È presumibile che i cittadini italiani emigranti in un altro paese trovino un salario e garanzie o, perlomeno superiori rispetto a quelle che non hanno in patria. Lo stesso accade per gli stranieri immigrati in Italia. E si trova inserito in rapporti sociali e produttivi sempre più segnati dal razzismo. «L’aumento della quota di occupazione meno qualificata, accompagnata dalla marcata segmentazione etnica del mercato del lavoro italiano, ha favorito la presenza di lavoratori immigrati più disposti ad accettare lavori disagiati e a bassa specializzazione» si legge nel rapporto. Tra il 2008 e il 2018 «gli stranieri sono passati dal 7,1% al 10,6% degli occupati». Nei servizi alle famiglie su 100 occupati 70 sono stranieri.

IL DECENNIO analizzato dal rapporto conferma i caratteri strutturali del mercato del lavoro: basso tasso di occupazione (58,5%), il penultimo in Europa. La crescita registrata nell’ultimo biennio, celebrata per motivi meramente propagandistici prima dal Pd e oggi dai Cinque Stelle, ha solo riportato questo tasso al livello di dieci anni fa. Per raggiungere il tasso di occupazione medio europeo (67.9%), servirebbero 3,8 milioni di occupati in più. Una chimera, considerate le prime avvisaglie di recessione «tecnica» registrate a dicembre 2018. La realtà è questa: una crescita occupazionale definita «a bassa intensità lavorativa» che può essere descritta così: più precari occupati, per meno ore, e pagati sempre peggio.

LA CRISI HA CAMBIATO anche la natura del lavoro, a partire da quello dipendente. Una tendenza razionalizzata dal Jobs Act (non modificato dall’attuale governo, nonostante le promesse elettorali) che ha fatto crescere i rapporto di lavoro a tempo determinato (+735 mila, non vanno oltre sei mesi) e gli impieghi a tempo parziale, spesso involontari. In totale 3,1 milioni di occupati precari. Quando si dirà che l’occupazione «aumenta» si dovrà tenere conto che aumenta il tasso di precarietà nell’ambito del lavoro esistente, di per sé già ridotto. Per questa ragione il numero delle persone occupate nel 2018 supera di 125 mila unità il 2008, ma la quantità del loro lavoro è inferiore. Sarebbero necessarie 1,8 milioni di ore lavorate in più e oltre un milione di unità di lavoro a tempo pieno per recuperare il livello di dieci anni fa.

NON SORPRENDERÀ il fatto che i lavori che mancano sono nella sanità, nell’istruzione e nella pubblica amministrazione, colpiti dall’austerità, dal blocco dei contratti e del turn-over. In questo quadro si confermano le sperequazioni territoriali tradizionali. Se il Sud resta fermo ai livelli pre-crisi con una perdita di 262 mila occupati, nel Centro-Nord ce ne sono 376 mila in più. Interessanti anche i dati sulle agevolazioni fiscali alle imprese con i quali si è voluto finanziare il capitale e le imprese sperando che assumessero. Questo, tra l’altro, è l’obiettivo di quel sussidio in cambio di lavoro obbligatorio chiamato «reddito di cittadinanza». L’impatto dei bonus «Giovannini», «Garanzia giovani» e quelli del Jobs Act hanno inciso del 28% sull’occupazione totale. Gli incentivi si sono concentrati a Sud, come farà anche il governo Lega-Cinque Stelle. Fin’ora hanno inciso per il 19% sui dipendenti totali. Un fallimento della politica dell’offerta, costata miliardi di euro, che non tarderà a ripetersi, spostando altre risorse pubbliche a favore del capitale.