Tra le più singolari esperienze dell’editoria europea, quella di Caballo de Troya, minuscolo marchio della Penguin Random House (quasi un raffinato capriccio, per un colosso dalla spiccata vocazione commerciale) venne inaugurata quindici anni fa dall’editor, critico e saggista Constantino Bértolo per dare spazio a nuove forme di scrittura. Dopo il pensionamento di Bértolo, nel 2014, con una scelta audace, la selezione dei titoli venne affidata ogni anno a un giovane scrittore, puntando soprattutto sul formato elettronico: il progetto ha fatto da levatrice ad autori ancora sconosciuti, che hanno poi raggiunto un pubblico più vasto. Tra loro, Elvira Navarro (la prima, tra l’altro, a diventar editor temporanea di Caballo de Troya, dopo l’uscita di Bértolo), che con il suo libro di esordio, La ciudad en invierno, suscitò a suo tempo l’entusiasmo di Enrique Vila-Matas e che oggi, dopo quattro romanzi e un recentissimo ed entusiamante libro di racconti, si conferma come una tra le voci femminili più intense e apprezzate del panorama letterario spagnolo.
Tradotto per la prima volta in italiano da Sara Papini e incluso nel catalogo di Liberaria, un piccolo editore pugliese dalle ottime credenziali, arriva infine anche nelle nostre librerie il suo terzo romanzo, come sempre orientato a una densa brevità: La lavoratrice (pp. 173, e18,00) che, attraverso la sua trama solo in apparenza semplice, dove ben poco accade, rovescia gli schemi consueti e racconta vite alle quali il mercato del lavoro non garantisce se non una difficile e instabile sopravvivenza, generando o amplificando il disagio mentale di chi ne è protagonista.

Una eccentrica coinquilina
Non c’è davvero nulla cui afferrarsi nella vita di Elisa, che nonostante la sua laurea, il master, gli studi all’estero e la pubblicazione di un romanzo, deve accontentarsi di collaborazioni pagate male e in ritardo da una grande casa editrice, ritrovandosi condannata alla precarietà senza orari di un lavoro eseguito in solitudine, tra le quattro mura del modesto appartamento in cui abita, in periferia, dove la noia e la fatica del suo «cottimo» da neoproletaria della cultura la spingono a cercare ogni pretesto per interrompersi, vagando in rete o contemplando dalla finestra un paesaggio che ricorda le vedute iperrealiste di pittori come Antonio López o Amalia Avia. Anche la misteriosa Susana, con la quale Elisa è costretta a condividere un’abitazione che altrimenti non potrebbe permettersi, sembra segnata dalla perpetua instabilità e da un trauma segreto che per qualche tempo le ha devastato la mente e il corpo, trasformandola in una sorta di freak e inducendola a cercare eccentrici incontri sessuali.
Entrambe prigioniere di un conflitto prontamente medicalizzato, le cui radici sembrano trovarsi all’esterno, in un neoliberismo che produce follia, le due donne condividono un’intimità forzata e afasica, finendo tuttavia per rispecchiarsi l’una nell’altra: Susana con sostanziale indifferenza, Elisa con terrore, perché la coinquilina le appare come l’esempio di una probabile condizione futura.
Considerato un perfetto «romanzo della crisi», che racconta una generazione priva di prospettive, La lavoratrice può far pensare a un rinnovato e contemporaneo realismo sociale, ma la struttura della narrazione, l’uso del linguaggio e l’indubbia vocazione sperimentale di Elvira Navarro ci dicono tutt’altro. Non a caso Damián Tabarovsky, critico e scrittore argentino di grande acume e autore di un saggio fondamentale come «Literatura de izquierda», scrive del romanzo che «ripensa il realismo per sovvertirlo, per espandere le sue possibilità espressive, per portarle all’estremo», mentre si serve di una storia personale per raccontare la decostruzione del proprio sé, provocata dalla crisi economica e riflessa in quella degli spazi urbani dove la protagonista usa vagabondare, di notte, per cercare il vuoto e recuperare il respiro, camminando senza sosta.
La prima persona di Elisa, introspettiva e divorata dall’angoscia, è interrotta da altre voci: quella inaffidabile della mastodontica Susana (cui dobbiamo un incipit pirotecnico e delirante, tra bizzarre fantasie soddisfatte dalla torrida relazione con un nano) e quella cinica eppure freddamente disperata della caporedattrice Carmentxu, che infrangono la continuità del discorso inserendovi storie spezzate, o, nel caso di Susana, pure fabulazioni che le consentono di esistere, o forse solo di resistere. Storie e bugie che, scopriremo, vengono raccolte e «riordinate» dalla protagonista, pronta a servirsene per il suo nuovo romanzo, come ribadisce in un colloquio finale con lo psichiatra, che le chiede: «E cos’è più importante per lei, registrare ciò che avviene nel mio ambulatorio per concludere bene il suo libro o curarsi?» Così, mentre svela implicitamente al lettore il procedimento di costruzione di un’opera disseminata di interruzioni e salti cronologici, l’autrice avvia una riflessione sul senso del narrare e sulla stessa forma-romanzo.

Spazi urbani reinventati
Mentre cresce l’ansia di Elisa, che constata ogni giorno l’impossibilità di avviarsi verso un orizzonte coerente e solido, le sue esplorazioni notturne della città si fanno più prolungate e ossessive, dominate dalla paura e tuttavia indispensabili. La descrizione di una metropoli periferica e marginale diventa sempre più onirica e cupa, tanto che le strade, le case occupate, le silouhettes di chi raccoglie cartoni e detriti, il contrasto continuo tra luci e ombre, i suoni e gli echi, prendono tinte spettrali e quasi gotiche, trasformando Madrid in una città inventata, piena di vie e palazzi mai esistiti, pronti a svanire appena si gira lo sguardo. Se i passi di Elisa disegnano una mappa che corrisponde a quella dei suoi attacchi di panico, delle sue allucinazioni e dei suoi incubi, Susana, armata di minuscole forbicine e infinita pazienza, compone a sua volta altre mappe, collages labirintici fatti di figurine infinitesimali: una personalissima reinvenzione della città, scomposta in mille minuscoli elementi e ricomposta secondo una logica bizzarra e straniante.
La presenza di spazi urbani superbamente descritti e reinventati è, del resto, una costante così insistita, nell’opera di Elvira Navarro, da manifestarsi nei titoli speculari dei suoi primi due romanzi – La ciudad en invierno e La ciudad feliz – e in un blog dedicato alle periferie di Madrid, a confermare la corrispondenza profonda tra «interno» ed «esterno», come se il secondo definisse e modellasse il primo, avvolgendolo in un corpo supplementare altrettanto instabile e sofferente.
Torna, inequivocabile, il tema del doppio: la città è l’alter ego di chi la abita, proprio come Susana potrebbe esserlo di una Elisa più matura e per sempre sconfitta. In un contesto frammentato e privo di speranza (almeno finché le vicende individuali non si fonderanno in una rivendicazione collettiva e finalmente politica), le loro storie si intrecciano alla storia di tutti e ne diventano il simbolo, dando vita a un romanzo audace, che ci coinvolge in una lettura ipnotica e turbativa.