A Colin Crouch non manca certo la continuità nell’analisi di quella grande trasformazione che negli anni passati ha chiamato Postdemocrazia (Laterza). Con questo termine il sociologo e economista inglese indica la formazione di un regime istituzionale, e sociale, dove sono garantiti diritti civili e politici in presenza però di un accentramento dell’esercizio del potere nelle mani di imprese e organizzazioni sovranazionali. In altri termini, la democrazia è formalmente rispettata ma sostanzialmente aggirata.

Accanto a questo filone di riflessione, Crouch ne ha affiancato da sempre un altro, che coinvolge il mercato del lavoro, tema relativamente al quale è divenuto uno degli analisti più accreditati, in particolare sulla struttura occupazionale, sin da quando ha affrontato gli effetti del lungo Sessantotto nel vecchio continente in opere quali The political of industrial relation (Ediesse) e Confitti in Europa (Il Mulino).

Intellettuale militante che non ha mai nascosto le sue simpatie per il Labour party e per la sinistra europea, sono anni che prova a indicare una strada per il superamento della crisi delle organizzazioni del movimento operaio, spesso però inascoltato dai suoi compagni di strada. Ora la casa editrice il Mulino ha mandato alle stampe il volume Se il lavoro si fa gig (pp. 185, euro 19, traduzione di Rinaldo Falcioni), una riflessione sull’emersione del lavoro indipendente come forma estrema di precarietà nel capitalismo contemporaneo. Per Crouch, i gig workers sono figure tipiche perché esemplificano l’obiettivo delle imprese: rendere il lavoro una risorsa da attivare quando se ne ha bisogno, scaricando sui singoli i rischi del reddito, la gestione della sicurezza e quella finanziarizzazione dei servizi sociali che prevede che si acquistino sul mercato, indebitandosi, pensioni, assistenza sanitaria, formazione.

Inoltre gig è un termine che può essere tradotto in varie maniere: da intrattenitore a imbonitore, intermittente, come lo sono d’altronde i lavoratori dello spettacolo, universo iniziale per indicare queste figure, anche se poi nell’immaginario collettivo sono stati associati ai riders, ai fattorini, ai lavoratori giovani dei servizi e della logistica, a quelli della conoscenza e delle piattaforme digitali.

A chi gli chiede della Brexit, Crouch risponde che la necessità di un coordinamento e di politiche globali è una scelta obbligata. «Nel mio paese, in molti hanno votato per la Brexit per paura di perdere il lavoro, la sanità, l’università. Quei timori vanno gestiti politicamente. Non capisco invece quelle forze politiche che hanno prosperato alimentandoli».

L’economista e sociologo inglese Colin Crouch

Lei sostiene che il lavoro è ormai un bene «usa e getta». Il singolo si deve fare carico di tutto, compreso il rischio d’impresa, in cambio di nessun diritto e tutti gli obblighi versi il committente...
Il capitalismo contemporaneo vuole lavoratori disponibili a adempiere alle volontà delle imprese e a svolgere mansioni nei tempi e modi decisi dalla stessa impresa. Prendiamo Uber, società globale diventata simbolo della gig economy. I tassisti di Uber, ma lo stresso vale per i lavoratori di altre piattaforme digitali, sono giuridicamente lavoratori indipendenti, sono cioè «attori liberi» che rispondono alle regole della domanda e dell’offerta di servizi e lavoro. L’impresa si presenta cioè come l’intermediaria tra un lavoratore indipendente e il mercato, perciò non è responsabile né del lavoro svolto né delle condizioni nel quale viene espletato. In realtà non è però così. Le piattaforme digitali sono infatti imprese a tutti gli effetti che decidono modalità, contenuti, ritmi del lavoro. E se il gig worker non aderisce a quei comandi e a quei vincoli imposti dall’impresa è penalizzato nelle forme di chiamata e in una specie di classifica che viene stilata – questo è particolarmente evidente per i lavoro di consegna delle merci a domicilio – sui più veloci, i più «bravi».
La storia della flessibilità e della precarietà è al tempo stesso molto antica e molto moderna. Il capitalismo ha sempre voluto lavoro flessibile, cioè operai obbedienti. Quella che viene chiamata flessibilità – precarietà in termini moderni – è però qualcosa di diverso. Quel che vediamo in azione è cioè il tentativo, possiamo dire in gran parte riuscito, di ridimensionare se non cancellare l’insieme di diritti sociali di cittadinanza conquistati dal movimento operaio. Con la gig economy, tuttavia, siamo a un cambio di velocità e anche di obiettivi. Il problema non è una qualche rigidità in meno nel mercato del lavoro – le assunzioni, il licenziamento, la pensione -, bensì il fatto che le imprese vogliono essere del tutto indifferenti rispetto al salario e alle condizioni del lavoro, spostando il rischio e la responsabilità sui lavoratori e sui clienti. È il singolo, l’«attore libero» dunque, che si deve fare carico di tutto. Poco importa se è un lavoratore al verde o uno squattrinato. Sono problemi suoi non dell’impresa. La rilevanza assunta da queste forme di lavoro non può certo essere relegata alle percentuali di questo tipo di occupati. Oggi in Europa il 25 per cento dei lavoratori possono essere considerati indipendenti. Ma bisogna però cominciare a distinguere tra le forme tradizionali di lavoro autonomo e i gig workers delle piattaforme digitali. Il numero dei lavoratori indipendenti di questo tipo è dunque difficile da quantificare, ma sono in crescita.

Lei scrive del dualismo del mercato del lavoro. Da una parte ci sono i lavoratori a tempo indeterminato, che accedono ai diritti sociali di cittadinanza. Dall’altra i precari. Ma si deduce anche che questo dualismo riguarda solo una fase di transizione. L’obiettivo per le imprese è di avere solo «gig workers»?
Il dualismo del mercato del lavoro riguarda solo una situazione di transizione. Le imprese non possono infatti imporre una precarietà radicale. Incontrano ancora resistenze sociali, politiche. Certo, la retorica che ascoltiamo, dispensata a piene mani, è che se non viene estesa la flessibilità assisteremo a conflitti tra lavoratori garantiti e precari, tra migranti e indigeni, tra giovani e vecchi. Non nego che ci siano questi conflitti nella forza-lavoro, ma spesso sono conflitti alimentati da un mercato del lavoro definito secondo le regole dominanti imposte dalle imprese.

Perciò, come contrastare questa tendenza?
Penso che i sindacati debbano aprirsi alle nuove figure del lavoro. In Europa, negli Stati Uniti, persino in Cina ci sono esperienze di nuove organizzazioni sindacali per i gig workers. Esperienze embrionali, certo, che segnalano però il fatto che la precarietà non è un destino obbligato per i singoli. Prima faceva riferimento al dualismo del mercato del lavoro. Ho detto che non sono convinto che quello sarà il futuro, ma nel presente questo significa il perdurare di forme di corporativismo sindacale: si favoriscono alcune figure e tipologie contrattuali rispetto ai lavoratori precari. La scommessa che abbiamo di fronte è favorire lo sviluppo di inedite, creative e efficaci nuove forme di organizzazione sindacale pensate per lavori che sfuggono al canone del lavoratore bianco, occupato in una grande impresa, che ha tempi e mansioni definite una volta per tutte.

Possiamo dire che la precarietà è uno dei pilastri della cosiddetta postdemocrazia?
È un legame esistente, dinamico, sempre in divenire. Non c’è automatismo, determinismo, ma è un dato di fatto che la postdemocrazia si afferma al tramonto dei diritti sociali di cittadinanza, al declino di quello che viene chiamato il patto keynesiano, fordista. Posso dire che la postdemocrazia facilita l’introduzione di politiche del lavoro incentrate sulla precarietà, ma non è automatico, perché la precarietà può incontrare forti resistenze sociali, elemento che invece non riguarda quel che lei qualifica giustamente come postdemocrazia.

La «gig economy» si fonda su una retorica del libero mercato, della socializzazione del rischio. Una delle caratteristiche dominanti del capitalismo delle piattaforme è però la formazione di grandi monopoli globali, come testimoniano le esperienze di Amazon, Uber e di molte imprese della logistica che sono nei fatti dei monopoli.
Si, la tendenza sono i monopoli. Non potrebbe essere diversamente, visto che sono imprese che operano globalmente all’interno di infrastrutture che hanno bisogno di forti investimenti in ricerca e sviluppo e nella gestione delle stesse infrastrutture. Pensare che Uber possa funzionare e fare i profitti che fa in una situazione che non punti al monopolio è credere che basti volere la luna per averla.