Dalle balle di plastica azzurra si intravedono maglioni di lana, pressati da sembrare un blocco unico. Il luminoso capannone di Montemurlo, nella provincia pratese, è di uno dei fornitori del marchio Rifò. Il progetto imprenditoriale fondato circa un anno fa da Niccolò Cipriani produce cappelli, guanti e sciarpe da cashmere rigenerato. Niccolò visita spesso le quattro piccole aziende che si occupano delle diverse fasi di lavorazione della lana rigenerata. Il primo passaggio avviene proprio nell’azienda di Montemurlo, di proprietà dello zio cenciaiolo. Qui vengono impilate grosse balle di maglioni e giacche di lana che arrivano da tutto il mondo, dagli Stati Uniti in particolare.

«La prima fase si svolge a mano», spiega il fondatore di Rifò, e aggiunge: «Gli artigiani cenciaioli toccando i maglioni sanno se si tratta di pura lana o se è ibridata». Una volta liberati dall’imballaggio i maglioni vengono tagliati e raccolti in grandi ceste, divisi per colore e per qualità, poi rilavorati fino a diventare nuova fibra, destinata alla filatura. «Il cenciaiolo ha sempre con sé accendino e forbici: con l’accendino dà fuoco al filo per vedere se c’è il poliestere, le forbici servono per tagliare gli scarti e trasformarli in nuovo materiale da filare», spiega Niccolò.

Rifò si avvale di aziende selezionate in base a criteri di sostenibilità. Devono possedere il Global Recycled Standard, una certificazione volontaria internazionale che valuta l’impatto ambientale e sociale delle attività manifatturiere e la qualità del prodotto riciclato. «I controlli sono più frequenti durante la fase di produzione», spiega il creatore di Rifò. Oltre alla collezione invernale Rifò ne propone anche una estiva, da cotone rigenerato. Si rivolge a cinque aziende che si occupano delle diverse fasi: dalla filatura alla tessitura, fino alla confezione, ricamo ed etichettatura. Le lavorazioni avvengono tutte nella pianura industriale intorno a Prato. Unica eccezione il filato di cotone, che arriva dalla Spagna. Alcune aziende che lavorano con Rifò rischiavano di chiudere, a causa della crisi del settore tessile. Nella fase di confezione e tessitura la concorrenza è forte. Chi lavora le materie prime rigenerate, invece, racconta Niccolò, ha ancora tanto lavoro: «Si fa solo qui, è unica».

DAL VIETNAM AL DISTRETTO INDUSTRIALE pratese. La vicenda di Niccolò Cipriani intreccia la tradizione della città toscana e l’esperienza nella cooperazione allo sviluppo per il Ministero degli Esteri e l’Onu. «Mi occupavo di sviluppo sostenibile, imprenditoria sociale e microcredito», spiega. «Il Vietnam è uno dei principali centri manifatturieri», racconta il fondatore di Rifò: «Mi sono accorto di quanto surplus di produzione esista, delle enormi quantità di scarto tessile». L’idea di creare Rifò è nata da un confronto con lo zio cenciaiolo: «Perché non sfruttare l’economia circolare che a Prato viene praticata da più di 100 anni?» Il successo del crowdfunding per il lancio di Rifò ha spinto Niccolò a tornare in Italia, abbandonando la carriera precedente: «Qui si nasconde un patrimonio tecnico e tessile enorme ed è un peccato non valorizzarlo».

«L’obiettivo finale di Rifò è smettere di produrre perché non avremo più scarti da lavorare», scherza Niccolò Cipriani, ma aggiunge: «Vogliamo creare un processo di produzione sostenibile, trasparente e completamente tracciabile». L’idea della giovane azienda pratese è quella di diffondere la cultura delle certificazioni di sostenibilità: «Rispetto all’anno scorso, quando ho iniziato, oggi tante aziende si sono dotate di certificazioni».

IL PROCESSO PER ARRIVARE AL CAPPELLINO di cashmere rigenerato è prevalentemente meccanico. «Non c’è bisogno di coloranti perché produciamo in base ai colori degli scarti a disposizione» spiega il creatore di Rifò. «La materia prima già lavorata consente di non usare prodotti chimici, risparmia il 77% di energia e il 90% di acqua, rispetto alla lavorazione di lana vergine», sottolinea.

L’azienda lavora su ordinazione on-line, in modo da poter gestire un magazzino minimo. Oggi Rifò impiega sette persone e i suoi prodotti vengono venduti in Italia, ma anche in Belgio, Svizzera, Germania, Canada, Stati Uniti e Francia.

Gli scarti di lana arrivano da Stati Uniti, Nord Europa, Pakistan e India, dove si concentra la trasformazione del cashmere. Provengono dal surplus di produzione o dalla raccolta dei vestiti usati. La lana dei cappellini e delle sciarpe di Rifò, però, è solo quella dei vestiti smessi, raccolti negli Stati Uniti, in Germania, Olanda, Belgio, Svezia e in Italia. Si tratta di scarti che hanno ancora un valore e per le aziende che li lavorano sono a pagamento.

UN PROGETTO TRA TRADIZIONE e innovazione, quello del giovane imprenditore: «Prendiamo la lavorazione del cardato, che ha fatto di Prato un distretto, e la innoviamo con il digitale». La lavorazione degli scarti di lana, infatti, è una tradizione che nella città toscana esiste già da fine ‘800. Lo testimonia il museo del tessuto che sorge all’interno dell’antica Cimatoria Campolmi, appena dentro le mura. Le sale mostrano l’evoluzione dei macchinari e del mercato tessile. A dare il primo impulso alla lana rigenerata fu la domanda di forniture militari, durante le guerre, e di coperte per gli ospedali. Nel secondo dopoguerra Prato divenne la capitale mondiale della trasformazione degli stracci. Con il successo di questa lavorazione nacque la figura del cenciaiolo, colui che con l’abilità del tatto seleziona e trasforma i cenci. «Una volta i cenciaioli si vergognavano del loro lavoro», spiega Niccolò Cipriani e aggiunge: «La stessa parola cencio in toscano è dispregiativa, indica un rifiuto». Il museo ripercorre la storia della Prato manifatturiera dalla lavorazione della lana vergine, in epoca romana, ai tessuti per l’alta moda, dai cenciaioli all’immigrazione cinese.

«I pratesi praticavano l’economia circolare senza saperlo», conferma Marco Benedetti di Legambiente Prato, imprenditore nel campo dei prodotti sostenibili. «Venivano presi in giro perché trasformavano un rifiuto in tessuto di qualità, ricercato dai marchi della moda mondiale», spiega. Le crisi hanno fatto chiudere molte aziende e selezionato il settore. «Le aziende sopravvissute alla crisi del 2008 sono quelle che hanno investito nel marketing e nella comunicazione», sostiene Marco Benedetti, che conosce da vicino il distretto. Ad attirare il settore della moda, sin dal dopoguerra, è stata la flessibilità della foggia e dei materiali che componevano i tessuti pratesi: «A Prato è stato realizzato il primo pile da scarti di poliestere», racconta Marco Benedetti. Secondo il membro del direttivo di Legambiente, a Prato si sperimentavano le innovazioni in campo tessile: se funzionavano, venivano applicate in tutto il mondo.
«I pratesi sono stati abilissimi ad ottimizzare i processi produttivi per risparmiare costi di energia, acqua e chimica», spiega. Secondo Marco Benedetti il motore è stata la riduzione delle spese, per guadagnare di più ma l’effetto è stato sviluppare un’economia circolare. Il rappresentante di Legambiente Prato spiega come oggi si punti a ridurre e razionalizzare i trasporti, si investa nelle rinnovabili e si risparmi acqua: «La falda sta risalendo, non solo perché sono diminuite le tintorie a causa della crisi, ma anche per il sistema di riciclo delle acque dopo un processo di depurazione».