Un pestaggio in piena regola, con picchiatori intervenuti a ‘punire’ gli operai pachistani e cinesi che, con le le bandiere del sindacato di base Si Cobas, manifestavano nella zona industriale del Macrolotto 2 davanti ai cancelli dell’azienda tessile Dreamland, per denunciare la loro condizione di lavoratori sfruttati, sottopagati e ricattati. Dopo i quattro arresti di lunedì per sfruttamento della manodopera, una coppia di cinesi e due loro fedelissimi collaboratori, un’altra decina di cinesi, fra i quali il titolare formale della ditta di pronto moda, sono stati rinviati a giudizio per le lesioni procurate ai manifestanti lo scorso 11 ottobre.

Affidate dalla procura pratese al Gruppo antisfruttamento della Asl Toscana Centro e ai carabinieri del Nil, le indagini con intercettazioni telefoniche, analisi dei tabulati, testimonianze e filmati hanno fatto emergere una percentuale molto alta di operai al nero o assunti con contratti part time da tre ore al giorno, quando in realtà si lavorava sette giorni su sette per 13 ore al giorno, con retribuzione a cottimo tra 7 e 13 centesimi per capo tessile lavorato, o forfettaria per meno di 3 euro all’ora. Il tutto ai danni di almeno venti operai, cinesi e pachistani, che venivano pagati ancora meno se erano sprovvisti del permesso di soggiorno.

“L’inchiesta – ha spiegato il procuratore capo Giuseppe Nicolosi – ha svelato chi fossero i mandanti e alcuni esecutori materiali della violenta aggressione, restituendo la misura della spregiudicatezza con la quale gli indagati hanno condotto l’iniziativa imprenditoriale, con il solo scopo di massimizzare i profitti sottoponendo gli operai a condizioni di lavoro disumane, calpestando la loro dignità”.

“O lavori alle mie condizioni o ti dimetti e vai via, è in buona sostanza una sorta di ricatto vitale – ha aggiunto Nicolosi – rilevato in tutte le aziende gestite nel tempo dagli indagati quando è emerso un fenomeno di dimissioni volontarie fra i lavoratori”. Ad aggravare il quadro descritto dalla magistratura requirente ci sono infatti “i risarcimenti economici tesi ad ottenere il silenzio di alcuni lavoratori, le pretese estorsive consistenti nella restituzione di quota parte degli emolumenti, i metodi di sorveglianza fisica e digitale, e appunto il fenomeno delle dimissioni volontarie dei lavoratori. Che erano in un stato di tale debolezza da determinare un sostanziale atteggiamento di totale subordinazione nei confronti dei titolari”.

La manifestazione indetta dal Si Cobas davanti ai cancelli dell’azienda era stata organizzata proprio per far valere i diritti costituzionalmente garantiti, in un disperato tentativo di emancipazione da parte dei lavoratori. In risposta solo botte e manganellate. Violenze che hanno portato gli investigatori e la procura a rimarcare “l’indifferenza mostrata dagli indagati, che hanno approfittato dello stato di bisogno delle vittime non mostrando, nel tempo, alcun comportamento riparatorio”.

Le condizioni di sicurezza all’interno della fabbrica erano “assolutamente precarie”. Durante l’indagine sono state numerose le prescrizioni impartite dai tecnici della prevenzione della Asl, in alcuni casi mai ottemperate dai titolari dell’azienda. Tra le irregolarità riscontrate, i percorsi d’esodo e le vie di emergenza ostruite, i locali impropriamente adibiti a dormitorio ricavati negli stessi luoghi di lavoro, le carenze impiantistiche, e infine la completa assenza di formazione e informazione ai lavoratori, del tutto ignari dei rischi e delle misure di protezione da adottare.

L’attenzione del gruppo antisfruttamento della Asl si è concentrata anche sul rilascio di falsi attestati formativi: “Un fenomeno preoccupante, reso possibile dalla collaborazione di professionisti conniventi – ha spiegato in ultimo Nicolosi – sul quale sono ancora in corso ulteriori approfondimenti investigativi”.