Rapper, scrittore, educatore, figlio di un immigrato egiziano e di una donna italiana. Amir Issaa, nato e cresciuto nel quartiere capitolino di Torpignattara, si è avvicinato alla cultura hip hop nei primi anni Novanta come breaker e poi writer nella crew capitolina The Riot Vandals. Issaa è anche uno dei fondatori di Rome Zoo, un collettivo di cui hanno fatto parte nomi storici della scena rap romana come Colle Der Fomento e Cor Veleno. Dopo aver pubblicato numerosi dischi, negli ultimi anni si è dedicato alla scrittura di libri e a portare il rap come strumento didattico nelle scuole e in altri luoghi.

Com’è nata l’idea di portare la sua esperienza di rapper nelle università statunitensi?

L’idea dei tour didattici negli Stati uniti nasce nel 2015 dall’invito di una professoressa che mi coinvolse in una lezione al Dartmouth College, nel New Hampshire. Lì scoprii che già da un po’ di tempo c’erano insegnanti che utilizzavano estratti delle mie canzoni («Straniero nella mia nazione», «Non sono un immigrato», «La mia pelle») e alcune interviste che avevo rilasciato a dei media italiani dove parlavo di seconde generazioni e del cambiamento culturale italiano. Ogni anno faccio almeno due tour dove visito università e college americane.

Quali sono le reazioni delle studentesse e degli studenti americani?

Sempre di estrema curiosità. Le domande che mi fanno sono spesso legate agli stereotipi che hanno sull’Italia. L’obiettivo dei professori e delle professoresse con cui collaboro è proprio quello di andare oltre gli stereotipi e fornire loro delle informazioni su com’è l’Italia oggi. Una mia lezione dentro un’università si svolge sempre utilizzando musica e videoclip che guardiamo e ascoltiamo insieme, prestando attenzione ai testi e alle tematiche che affronto. A volte faccio anche dei concerti dove loro ascoltano i miei brani con i testi tradotti e poi ci dedichiamo a dei workshop di scrittura in cui spiego come si scrivono le rime in italiano. In questo modo il rap ha due funzioni: analizzare l’evoluzione della società italiana e imparare la lingua attraverso la scrittura di un brano rap. Si tratta di un lavoro che sta finalmente prendendo piede anche nelle università italiane. Infatti ho visitato di recente l’Università per Stranieri di Perugia e l’Università di Macerata.

«Potere alle Parole» è un format che ha portato nelle scuole, nelle carceri, negli hotspot per migranti. Cosa le ha insegnato portare la sua arte, il suo stile in quei contesti?

Il rap nel mio caso è stato uno strumento di riscatto sociale perché vengo da una situazione familiare difficile. Per me è stato uno strumento pedagogico e terapeutico, mi ha aiutato a tirare fuori delle cose che non riuscivo a esprimere. Ci sono dei miei brani come 5 del mattino dove parlo della detenzione di mio padre o Inossidabile che rappresentano dei veri e propri storytelling in cui per la prima volta ho affrontato certe tematiche. Portare il rap in posti come gli hotspot per migranti o nei penitenziari minorili o per adulti ha questa funzione, cioè mostrare come la musica e il rap in particolare possono essere arteterapia. Questi sono i valori della cultura hip hop: trasformare la negatività in qualcosa di buono. Il rap mi ha salvato e oggi cerco di portarlo agli altri. Le persone che mi ascoltano se ne accorgono ed entrano in sintonia con la mia storia personale.

Cosa pensa dell’attuale scena rap italiana?

La scena è cambiata tantissimo. Negli anni Novanta erano davvero pochi i rapper italiani non bianchi e questa cosa mi faceva sentire un po’ solo. Nel 2006 quando uscì il mio primo album (Uomo di prestigio) l’etichetta discografica Virgin Records lo lanciò come il primo album di un rapper di seconda generazione, ma sapevo che altre e altri sarebbero arrivati dopo di me. Era solamente questione di tempo. Oggi in Italia la maggioranza dei rapper, soprattutto quelli che dominano la classifica, è composta da figli di immigrati, ragazzi di seconda generazione. Rapper come Baby Gang, Sacky, Simba La Rue. Potrei elencarne decine. Se li analizzate, i testi di questi rapper rappresentano veramente le periferie. Il rap è uno specchio della società, la rabbia che emerge dalle loro rime è anche dovuta al fatto che i rapper di seconda generazione sono visti come il nemico pubblico, vengono strumentalizzati dalla politica e quindi è normale che esprimano con la loro musica risentimento e frustrazione.