I ricordi sono creature inquiete. Se ne stanno sepolti per anni e anni. Non soltanto nella memoria, ma anche dentro scatole, buste, cassetti disordinati. Poi, per una coincidenza mentale o per razionale necessità, riprendono anima e corpo, tornano a raccontare, diventano antologie di un tempo irripetibile e lontano ben più della distanza contata in giorni. È il caso di un rettangolo azzurro e leggerissimo che un’amica quasi coetanea di chi scrive si è vista capitare qualche mese fa tra le mani, mentre cercava di dare un senso ai plichi di lettere accumulati fin dai tempi della scuola. Ce lo ha mostrato con stupore e, mentre le scorrevamo, quelle sessanta righe di calligrafia nervosa tornavano ad alzare il sipario su una corta porzione di Novecento catalogata prima nel mito, poi nella semidimenticanza. Era il decennio degli anni ’70 cui si aggiunse la prima metà degli ’80. Allora, viaggiare ‘davvero’ significava viaggiare on the road, senza una data di ritorno precisa sul biglietto aereo a prezzi stracciati, emesso da compagnie tra cui spopolava la sovietica Aeroflot: il massimo della scomodità, dai sedili al numero di scali necessari per arrivare alla meta. I chilometri dell’on the road si consumavano a bordo dei mezzi pubblici (bus in testa), tanto precari quanto la destinazione si faceva più piccola e lontana.

Alternativa gloriosa arrivava dal minibus Volkswagen Combi, comprato di seconda mano in patria e stipato all’inverosimile di passeggeri e bagagli. Le soste si facevano dormendo nei letti di guesthouse o locande non propriamente linde e confortevoli; per i soggiorni stanziali si sceglievano alberghetti improvvisati ad uso degli stranieri dalla pelle candida e case messe a disposizione dalla gente, dietro compenso che alle orecchie e alle tasche di quegli stranieri suonava ridicolo. Il cibo poteva costituire necessità o piacere, dipendeva dai luoghi e dalle cucine locali. Il popolo dell’on the road si riconosceva a prima vista: capelli lunghi lui, fluenti e lasciati sulle spalle lei; pantaloni e camice di cotone colorato, confezionati sul posto; borse in tessuto da tappeti e ricamate. Da dove arrivava, quel popolo? Germania e Stati Uniti a grande maggioranza; poi Australia, Francia, Olanda. Gli italiani erano presenze rarissime, accolte con stupore. Dove andava? I traguardi finali erano Afghanistan, Pakistan, India, Nepal. Chi si muoveva via terra passava per la Turchia e l’Iran filo occidentale dello sha Reza Pahlavi. Migliaia e migliaia di chilometri lungo una porzione della leggendaria Via della Seta. Gli amanti del viaggio lentissimo sceglievano il treno anche sugli spostamenti interni.

Alcune cose accomunavano quella sorta di Internazionale dei viaggiatori erranti. C’era, prima di tutto, la necessità di scambiarsi informazioni su luoghi che solo in seguito avrebbero offerto terreno fertile alle guide della Lonely Planet. I loro inventori, gli australiani Tony e Maureen Wheeler, avevano appena dato alle stampe, in poche centinaia di copie, la capostipite delle LP, ‘Across Asia on the Cheap’, manuale nato dopo un on the road dalla Turchia al Nepal. Per scambiarsi informazioni ci si ritrovava tutti e spontaneamente intorno a un tavolo della guesthouse o dell’alberghetto, carte geografiche e quaderni di appunti aperti: il bus non fa più quel tragitto, il battello ha interrotto da due mesi il servizio verso quell’isola, quella locanda è piena di scarafaggi, i militari di quel posto di confine sono dei veri bastardi, se vuoi mangiare benissimo e a poco vai lì, al mercato di si compra bene e conviene, per i vestiti vai al negozio del sarto indiano nel quartiere di…. Una parete della guesthouse o dell’alberghetto era parzialmente occupata da una grande rastrelliera in legno, divisa in scomparti. Li riempivano decine di buste. Molte arrivavano dall’Estero, compilate con il nome, l’indirizzo, la città, la nazione del destinatario e del mittente; molte portavano semplicemente il nome del destinatario e un appunto tipo ‘Arriverà il giorno e il mese tale’.

Le distingueva un particolare. Quelle senza indirizzo erano di carta pesante e contenuto voluminoso; le altre erano leggerissime, un unico foglio ripiegato e incollato. Le prime le avevano lasciate lì i viaggiatori, ad uso di chi sarebbe passato dopo; le seconde, spedite da parenti e amici lontani, davano e chiedevano notizie. Si chiamavano aerogrammi. Tutte venivano allineate nella rastrelliera del Poste Restante, il Fermo Posta. Appena entrato nella guesthouse o nell’alberghetto, il viaggiatore si dirigeva verso il Poste Restante in cerca di una busta con il suo nome. Lo faceva senza preoccuparsi di tradire emozione, di far trasparire la propria ansia. Poi chiedeva un tè, una birra se c’era, e andava a cercarsi un posto lontano dalla gente. Il sorriso, lo sguardo assorto, l’aggrottare delle ciglia, si facevano più marcati e intensi se la busta era un aerogramma.

E lo stesso avveniva dall’altra parte del mondo, ricevendo l’aerogramma che la sera, nel silenzio della sua stanza o nel brusio della sala comune, il viaggiatore avrebbe scritto e spedito. In risposta alle notizie sulla famiglia e sulle patrie vicende, alle richieste di ragguagli su salute e umore, alle esortazioni a non correre rischi, chi era rimasto a casa leggeva, accanto alle cronache su angoli del mondo allora simili all’Irraggiungibile, confessioni di fragilità e disorientamento dettati da un sogno di lontananza assai meno dorato di quanto ci si aspettava. Scrive Lisi nell’aerogramma azzurro di queste pagine «A Chitral (Pakistan, ndr) affitteremo una casa e sarà tutto più calmo e casalingo, e potremo preparaci da mangiare da soli, cosa molto importante questa, perché continuo ogni giorno ad avere allucinazioni gastriche di ogni sorta e tipo: dalle lasagne all’arrosto, alle melanzane alla parmigiana.

Per il resto, le mie impressioni sull’Afghanistan non sono poi tanto positive, a parte i paesaggi bellissimi, specie le montagne. Intanto per una donna è decisamente più duro… In Afghanistan ti ci devi fermare un po’ e ti accorgi subito che i negozi sono tenuti da uomini, gli alberghi pure, la spesa la fanno gli uomini, e così via. E a me, visitare un Paese di uomini non mi interessa poi molto». E nelle righe comclusive «Mi sembra ormai di essere in viaggio da un casino di tempo, anche se è passato un mese o poco meno, e sento la mancanza di un casino di gente. Scrivimi per dirmi come vanno le cose a Roma e cerca una casa capace di ospitare un mucchio di gente (il prossimo recapito è a New Delhi)… ho tanta voglia di avere una casa, e di sapere, quando parto, di avere una casa da qualche parte. E ho tanta voglia di mangiare».

Nella più classica contrapposizione tra sogno e realtà, il mito vacillava, assumeva brutte fattezze, chiedeva fatiche fisiche e psicologiche a volte di non poco conto, dettava la legge dell’imprevisto. Lisi e tanti altri si scoprivano deboli e impreparati. Lisi e tanti altri scoprivano mondi dove il prezzo del pedaggio per entrare e conoscere non concedeva sconti. Giusto, inevitabile, sacrosanto, che fosse così. Gli aerogrammi lasciati al Poste Restante o nelle cassette dei condomini di Roma, New York, Melbourne, Parigi, Berlino, narravano o si preoccupavano di tutto questo. Più serenamente, da lontano, davano conto di realtà che, a breve, sarebbero diventate autentici inferni.

La Bamyan di Lisa ne è esempio tremendo; il ‘fumo’ dall’odore inteso e dolce, offerto in segno di benvenuto allo straniero approdato a uno spartano hotel di Kabul, avrebbe lasciato il posto al fumo denso e acre dei bombardamenti. Il dramma che si consumava in Afghanistan agli albori dei ’70 riguardava centinaia di giovani occidentali sdraiati sui letti sporchi dentro stanze di infimo ordine, condannati a morte dalla droga. Migliaia di giovani dell’Occidente sarebbero poi venuti a morire di fuoco nemico e amico senza alcuna giustificazione degna di tale nome. Due anni dopo il viaggio di Lisi, l’esercito dell’Unione Sovietica avrebbe invaso la terra afghana. I Buddha di Bamyan, ventiquattro anni dopo il viaggio di Lisi, sarebbero diventati vittime del fanatismo talibano. Lei descrive così la ‘sua’ Bamyan, nel 1977 “Ti scrivo da Bamian, un paesino molto vicino alla capitale, tra i più noti luoghi turistici afghani, con tutti i pro e contro di ogni luogo turistico, dai prezzi alti ai luoghi bellissimi, ai rapporti di minchia con la gente, o turisti ricchi, o gente del posto povera che ti crede un turista ricco e ti chiede in regalo ogni sorta di cose….

Ci sono delle montagne bellissime, nonché due interi villaggi antichissimi con le case interamente scavate nella roccia, internamente comunicanti grazie a un complicato sistema di scalette. Ho tentato di salire fino in cima, ma feroci vertigini me lo hanno impedito”. Ed ecco la ‘ sua’ Herat, dove dal 2004 ad oggi sono morti oltre cinquanta militari italiani. Lisi ci arriva di sera, dopo un tragitto estenuante “… c’erano le strade con i lampioni a petrolio, e le botteghe basse rivestite di tappeti, e il profumo della legna della carne arrostita.

E gli uomini erano tutti col turbante e i pantaloni larghi, accovacciati a gruppi sui tappeti e nelle botteghe, e mangiavano frutta e bevevano tè”. Un rettangolo azzurro e leggerissimo, minuscolo archivio di geografie sparite. In quelle geografie, quante lettere e quanti aerogrammi saranno rimasti ad aspettare inutilmente sulle rastrelliere dei Poste Restante? Per essere poi buttati via, inceneriti dalle guerre, sepolti sotto le macerie dei cambiamenti urbani. L’on the road è bella cosa del passato. L’ha cancellata una parola, futuro, capace di mille ambiguità. Ma incapace, sempre e comunque, di mettere in rima, anche nei viaggi, la ricchezza dei sentimenti.

Testo dell’aerogramma

Bamian, Afghanistan, 3 o 4 settembre (1977, ndr)

Carissima,

ti scrivo da Bamian, un paesino molto vicino alla capitale, tra i più noti luoghi turistici afghani, con tutti i pro e contro di ogni luogo turistico, dai prezzi alti ai luoghi bellissimi, ai rapporti di minchia con la gente, o turisti ricchi, o gente del posto povera che ti crede un turista ricco e ti chiede in regalo ogni sorta di cose. Noi siamo qui per riposarci un po’, perché fa fresco e ci sono delle montagne bellissime, nonché due interi villaggi antichissimi con le case interamente scavate nella roccia, internamente comunicanti grazie a un complicato sistema di scalette. Ho tentato di salire fino in cima, ma feroci vertigini me lo hanno impedito. Ormai sono più di 15 giorni che siamo in Afghanistan, ripartiremo tra non molto, spero, esauriti i casini burocratici per visti e bus per il Pakistan, dove a Chitral (Pakistan, ndr) affitteremo una casa e sarà tutto più calmo e casalingo, e potremo preparaci da mangiare da soli, cosa molto importante questa, perché continuo ogni giorno ad avere allucinazioni gastriche di ogni sorta e tipo: dalle lasagne all’arrosto, alle melanzane alla parmigiana. Per il resto, le mie impressioni sull’Afghanistan non sono poi tanto positive, a parte i paesaggi bellissimi, specie le montagne. Intanto per una donna è decisamente più duro, perché in Turchia, e poi in Iran, non vedi assolutamente donne in giro, se non molto coperte. Ma sono Paesi di passaggio e non ci fai molto caso. In Afghanistan ti ci devi fermare un po’ e ti accorgi subito che i negozi sono tenuti da uomini, gli alberghi pure, la spesa la fanno gli uomini, e così via. E a me, visitare un Paese di uomini non mi interessa poi molto. Non sono riuscita a capire se le donne di qua vivono in una maniera o in un’altra, se sono soddisfatte, che cazzo di lavoro fanno tutto il giorno. Probabilmente non stanno male, perché hanno un mondo loro, dove gli uomini non entrano, e questo è molto, però è un mondo subordinato e inferiore. Una cosa brutta per una ragazza che passa per l’Afghanistan, è che non può proprio avere rapporti con donne locali, e anche quelli con uomini afghani sono completamente sfasati dal fatto che lei è donna e considerata in una certa maniera (e questa, poi, è una cosa che fanno pesare un casino e sempre). Ma poi, arrivare in Afghanistan era stato veramente pazzesco. Intanto lì si può fumare, in Iran no. Poi siamo arrivati di sera, dopo un giorno di dogane e di deserto, e siamo arrivati a Herat, che mi sembra la città più carina e caratteristica, e c’erano le strade con i lampioni a petrolio, e le botteghe basse rivestite di tappeti, e il profumo della legna della carne arrostita. E gli uomini erano tutti col turbante e i pantaloni larghi, accovacciati a gruppi sui tappeti e nelle botteghe, e mangiavano frutta e bevevano tè. Una sera veramente da mille e una notte. Adesso sono qua, in uno dei più squallidi alberghi passati finora, pure contenta di dormire finalmente in una delle caratteristiche case di fango afghane. Mi sembra ormai di essere in viaggio da un casino di tempo, anche se è passato un mese o poco meno, e sento la mancanza di un casino di gente. Scrivimi per dirmi come vanno le cose a Roma e cerca una casa capace di ospitare un mucchio di gente (il prossimo recapito è a New Delhi), ho un sacco di voglia di fare delle cose con delle donne. Anche cose importanti, e di fare delle cose con tanta gente, e ho tanta voglia di avere una casa, e di sapere, quando parto, di avere una casa da qualche parte. E ho tanta voglia di mangiare.

Un abbraccio