Quando mesi fa negli States il prof. Dario Giugliano direttore di Estetica. Studi e ricerche mi ha chiesto di presentare per Alias il tema degli studi postcoloniali a cui il numero della rivista è dedicato, avevo in mente una griglia concettuale. Il tema degli studi culturali di cui il postcoloniale è parte intrinseca, mi appartiene talmente tanto che, oltre ad averne scritto in maniera estesa, assieme a quel filosofo visionario e mai abbastanza rimpianto che è stato Mario Perniola, e ad altri tra cui ricordo con affetto Gianni Carchia e Isabella Vincentini fondammo nel 2000 Agalma.

Rivista di studi culturali e di estetica che già nel sottotitolo metteva al primo posto gli studi culturali. Pensavo che avrei parlato, come scrive Dario Giugliano nell’ editoriale della rivista del «tema del ripensamento dei margini, degli statuti disciplinari del sapere cosiddetto occidentale, di considerare l’arte come storia: non più soltanto quindi una storia o una teoria dell’arte, ma un’arte come teoria e come storia».

Che poi è il cuore del dialogo tra Iain Chambers e Homi Bhabha che apre la rivista e su cui per motivi di brevità mi concentrerò sebbene gli altri saggi contenuti nel volume siano tutti di grande interesse. Se come scrive Chambers nella sua Introduzione «l’estetica occidentale» si è presentata come una sfera separata priva di un peso politico o di un bagaglio etico, forse è arrivato il momento di cambiare. Ed in particolare sulla collocazione critica si confrontano e divergono i due studiosi: Chambers riferisce di una marginalità che è anche una complicità e rivela grandi limiti soprattutto nel conferire uno statuto di decolonizzazione all’arte e all’estetica, che vorrebbe mezzo critico, mentre Bhabha, a capo della divisione delle Humanities ad Harvard stenta a capire il continuare a parlare dai margini vista la posizione che ormai tali studi occupano in istituzioni di rilievo del mondo accademico e culturale worldwide.

E pur nelle differenze concordano su una spazialità altra che Bhabha chiama un «terzo spazio», un luogo di resistenza e di agency fatto di ibridata’, di tensioni e di contaminazioni. Da qui sarei partita per rimarcare i cambi di prospettiva e i confini disciplinari dell’estetica, concentrandomi sulla critica all’egemonia post illuminista.

Ma appare chiaro che dopo i recenti fatti in Afghanistan le priorità cambiano. Non solo perché quel paese, riportato alle cronache, di recente, è stato un tassello importante del colonialismo occidentale (le parole di Churchill ci riportano in pieno clima di The Heart of Darkness), ma anche perché il tema dei rifugiati e dei migranti assume una rilevanza di portata etica e politica che va a toccare non solo i confini disciplinari dell’estetica, ma in generale ogni possibilità di agency. D’altronde su un versante più politico si sposta tutta la seconda parte di questo acceso dialogo che rivela mondi e modi diversi di considerare gli studi e l’incisività dell’agency postcoloniale.

La considerazione di Bhabha che la critica culturale per quanto radicale non sia riuscita a bloccare la marcia inesorabile del neoliberismo è un fatto al quale prestare attenzione per non dare corda ai movimenti anti-illuministici nazionalisti e populisti. «Il secolarismo moderno… ha creduto che la ragione e la razionalità pubbliche avessero vinto la battaglia per la definizione dei diritti dei cittadini e delle virtù politiche che definiscono il bene comune».

Ma è stata semplicemente una forma pericolosa di narcisismo. L’anticolonialismo ha permesso l’instaurazione di regimi di violenza inaudita contro quelle stesse minoranze nazionali displaced. Gente «spiazzata» sono i dissidenti, i migranti i rifugiati «catturati in un movimento a tenaglia che li stritola». L’abbinamento della «sopravvivenza» alla violenza in realtà significa «ironicamente assumere la prospettiva dello Stato anche se solo per ritorcere la violenza contro quello stato». Se Chambers associa la violenza culturale alla collocazione delle asimmetriche relazioni del potere economico, di genere e razziale e cerca di sottrarre l’estetica alla sua posizione privilegiata nella storia della cultura occidentale esponendola ad un mondo che non possiede e non riesce a mappare, Bhabha vede invece in alcune tradizioni di estetica associate al mondo occidentale (dal Marxismo al decostruzionismo, e in autori che vanno da Gramsci a Benjamin e soprattutto ad Arendt) i germi di una critica a una collocazione etnocentrica capaci di spossessare la lingua nazionale. La lingua materna di Hannah Arendt me ne pare un esempio quasi da manuale.

Esse rappresentano importanti forme di negazione (dis-owning) ancora utili come strumenti per creare nuovi discorsi e nuove strategie culturali che diventano politiche. Non che Chambers abbia interesse a proporre un’estetica non-occidentale, ma intravede la necessità che l’estetica sia «attraversata, tradotta e trasformata da attori e azioni che essa stessa è riluttante ad autorizzare». Quell’universalismo che attraverso la repressione ha reso invisibile l’alterità viene invece catturato da Bhabha attraverso un processo di disconoscimento (disavowal) che permette un rerouting dell’estetica, mentre la repressione/rimozione ha bisogno di una presenza egemonica anche quando è già stata messa in ombra.

Non si trovano d’accordo sull’idea di come riconfigurare l’universale forse perché Chambers è in cerca di qualcosa di nuovo che ancora Bhabha non vede. Introduce il concetto di un universalismo iterativo/transnazione e arendtianamente individua nel ruolo dell’etica e della politica dell’alterità un’alternativa possibile. Le ferite del colonialismo e del razzismo infatti non guariscono mai, sono traumi; le loro cicatrici possono diventare le fondamenta di formazioni politiche etno-nazionalistiche.

Nell’’ultima parte della conversazione in ambedue emerge l’ansia del cambiamento e la frustrazione per lo status quo. Cosi Chambers parla di «camicia di forza» del liberalismo mentre Bhabha, compiendo dei distinguo, introduce una considerazione importante sul fondamentalismo che emerge «democraticamente» in molti paesi occidentali. Si mandano al potere, con il voto, leader incompetenti e pericolosi che gestiscono il potere in maniera autoritaria.

Facendo riferimento alla crisi dei partiti politici, Bhabha porta l’attenzione sui quei movimenti che dalle Primavere arabe, a #MeToo, a Black Lives Matter interrompono ripetutamente il flusso della cosiddetta normalità e accrescono la consapevolezza dei singoli. Questi movimenti evidenziano l’importanza della mobilità globale: bisogna imparare ad ascoltare i loro segni politici. Con il concetto di racial disproproportion Bhabha crea un’interruzione nell’idea etica e politica della «proporzione» in una società marcata dall’ingiustizia e dalla diseguaglianza.

Rispondendo con ciò a Chambers il quale manifesta una frustrazione per l’immobilità di una politica che si beffa della realtà almeno in Italia dove il problema delle migrazioni è quotidiano e dove il Mediterraneo è ormai un cimitero a cielo aperto. Seppure corre il rischio di estetizzare la scelta politica affermando che il dominio dell’etica e dell’estetica debbano divenire indistinguibili, su cui Bhabha non è d’accordo, è comprensibile l’ansia e l’urgenza di cambiare le cose.

Toccante al proposito è l’esperienza personale di Chambers che valuta lo statuto diverso di uno stesso luogo: la spiaggia dei Conigli a Lampedusa. Per lui cittadino che in una conferenza si rivolge ad altri cittadini che sono lì in vacanza è un posto privilegiato, mentre per i 368 corpi di migranti che 3 mesi dopo vi annegheranno è un luogo di morte.

Bhabha partendo da questa considerazione fa riferimento alle assunzioni giuridiche che sottostanno all’etica politica della Convenzione sui rifugiati, ma nota lo scarto che esiste tra le due condizioni che sembrano essere totalmente asimmetriche. Nel caso del cittadino Chambers egli ha un corpo e fa parte di un corpo politico, in quello del rifugiato, per essere visibile, deve arrivare vivo a quella spiaggia, cioè deve mantenere un corpo. E Bhabha si domanda quali possano essere le implicazioni estetiche in questa situazione di annichilimento.

Questa è più che necropolitica, mette in primo piano il rischio della vita. Mentre l’immagine di Little Amal l’opera d’arte vivente di 3,5 metri raffigurante una bambina siriana di 9 anni che si aggira per l’Europa in cerca dei genitori ci ricorda la tragedia di tutti i rifugiati, non si può fare ameno di pensare alle migliaia di persone che disperatamente ogni giorno tentano di attraversare il Mediterraneo o che cercano di fuggire dall’Afghanistan.