Dopo l’anteprima all’ultimo Festival di Spoleto, compie la sua normale programmazione l’ultima produzione del Teatro Metastasio stabile della Toscana, con uno spettacolo importante firmato dal suo direttore Paolo Magelli, Quai Ouest (al Fabbricone fino al 2 dicembre). Con il sottotitolo Approdo di ponente (se fosse tradotto banchina del tramonto renderebbe forse più esplicito il riferimento alla vicenda), il testo di Bernard Marie Koltès presenta con forza immutata le sue brume e il suo degrado, la sua disperazione e i suoi drammi. L’autore lo scrisse nei primi anni ’80, e Franco Quadri lo tenne a battesimo sotto forma di mise en espace nella Biennale che dirigeva, dentro un assai calzante capannone industriale alla Giudecca. Il suo debutto vero fu però a Nanterre, agli Amandiers parigini, ad opera di Patrice Chereau, che dei testi di Koltès è stato il promotore e il primo interprete, grazie al sodalizio lavorativo che avevano felicemente instaurato.

Si sente, nello sviluppo del testo e dei personaggi, una sensazione di malattia, di irrimediabile forza distruttiva, quasi una energia di segno negativo, che l’autore probabilmente già sentiva dentro di sé. In una landa portuale desolata, buia e molto «sporca», dove si intravede un hangar, dei container, fango, sterrati, e molti accessori di vita precaria, giunge una coppia con un macchinone sportivo (e rolex e carte di credito e tutto ciò che fa ricchezza). Lui è venuto, in questa parte morta del porto, per suicidarsi, premurandosi subito di trovare pietre da infilare nelle tasche eleganti della giacca, per non rischiare di tornare a galla. Lei si limita ad accompagnarlo guidando l’auto, avida e occhiuta , senza grandi problemi morali. Ma su quella riva maledetta vivono, quasi clandestini a se stessi, dentro tende, botole e pertugi, altri esseri umani vicini alla disperazione.

È un formicolare di umanità, una famiglia allargata a maglie larghe, tra West side story e Il pianeta delle scimmie: istinti animali e desiderio di «rispettabilità», sentimenti familiari e dura lotta per la sopravvivenza. Si dice che Koltès, francese di origine algerina, avesse scritto il testo di ritorno da un viaggio in America; ed è in effetti l’aria cajun di certi anfratti del Mississipi ad aleggiare su quel fango nebbioso (e anche bagnato di pioggia, a tratti). Un affresco doloroso che si va componendo via via, ma che non perde mai la sua carica di vitale conflittualità, che è anche conflitto per la vita, duro scontro per la sopravvivenza. C’è un padre sprezzante (Mauro Malinverno) guidato solo dal suo egoismo, e una madre provata ma ancora di grande bellezza (Alvia Reale, che sembra discendere da una tragedia classica); dei figli palpitanti dei primi ardori (Francesco Borchi e Elisa Langone), uno sguaiato, concreto programmatico Fak (Fabio Mascagni) e un silente coabitante nero (Francesco Cortopassi), cui toccherà salvare dalle acque il riccone carismatico e «tremendo» (l’ottimo Paolo Graziosi), mentre l’accompagnatrice di questi (Valentina Banci) cerca soluzioni alternative per il proprio piacere.

È un ensemble coeso e coinvolto, quasi si sentisse davvero parte di questa discesa agli inferi, in una banlieu della morale costituita. E l’unica nota leggera e vitale è la partitura che Arturo Annecchino assembla, quasi a voler straniare la situazione, o a far risuonare una lucida amarezza di liturgia negativa.