Sembra che da bambina il suo gioco preferito fosse scappare di casa. Non che arrivasse molto lontano, però ogni giorno c’era qualcuno costretto ad andare a cercarla per riportarla indietro. Una volta, aveva quasi sei anni, a recuperarla fu il padre. Sulla via del ritorno le chiese perché fosse così irrequieta e non potesse invece starsene tranquilla insieme alla sua famiglia. Lei rispose che voleva andare a conoscere il mondo. Che anzi voleva conoscere il mondo come il palmo della sua mano. «Ero precoce, inquieta, ribelle, ineducabile, rendevo la vita difficile a me stessa e immagino a quelli che mi stavano intorno» dirà molto tempo dopo, di sé, quella bambina divenuta ormai adulta ma non ancora stanca di scappare. Del resto, all’epoca in cui si presentava con queste parole in un dizionario di scrittori americani, Katherine Anne Porter aveva scritto un libro soltanto ma già cambiato quattro mariti e un numero piuttosto consistente di città, nel nuovo mondo e perfino in quello vecchio. Da casa sua era scappata una volta per tutte a sedici anni sposando un ragazzo poco più grande di lei, il figlio di un facoltoso allevatore di bestiame che aveva conosciuto qualche mese prima a un ballo di Natale.
Nata il 15 maggio 1890 in Texas, a Indian Creek, da una famiglia ancora fieramente sudista di militari e proprietari terrieri, in origine benestante ma decaduta, Callie Russel Porter si era ribellata molto presto anche al proprio nome di battesimo. Già nel 1904, frequentava un istituto metodista a San Antonio, aveva cominciato a farsi chiamare Katherine Anne dai compagni di scuola in ricordo della tostissima nonna paterna che l’aveva cresciuta insieme all’unico fratello e alle due sorelle. La madre era morta di parto quando lei non aveva nemmeno due anni. Il suo nuovo nome, quello con cui diventerà famosa imponendosi come una delle più grandi scrittrici americane, sarà legalizzato nel 1915: l’anno del divorzio dal primo marito, rivelatosi un alcolista così violento da provocarle un aborto a furia di botte, ma anche del secondo matrimonio e dell’immediato, nuovo divorzio. Era uscito nel 1912 su una rivista commerciale il suo primo testo a stampa, una poesia dedicata al Texas.
Cantante in una compagnia di giro
In quel periodo Porter si mantiene con un impiego di commessa in un grande magazzino, ma è stata anche cantante in una compagnia di giro, comparsa in un paio film. Ha compilato indirizzi sulle buste per due dollari e mezzo al giorno. Nel 1917 firma una storia per bambini su un quotidiano di Dallas e comincia a scrivere per i giornali: sarà prima notista di costume a Forth Worth, poi cronista in Colorado e infine, dopo un’inattesa guarigione dalla spagnola, corrispondente politica dal Messico, paese che frequenta durante la presidenza di Álvaro Obregón ma che rimarrà anche in seguito per lei una seconda patria. È di ambientazione messicana il suo racconto d’esordio, Marìa Concepciòn, uscito nel 1922 a New York sul mensile «The Century». L’irrequieta Katherine Anne Porter ha ancora molte fughe e molte abitazioni e molti anni davanti a sé (morirà in una casa di riposo a Silver Spring, nel Maryland, il 18 settembre 1980), ma da quel momento deciderà di essere soltanto una scrittrice. Si direbbe anzi che l’unica cosa da cui non sia scappata via nella vita sia il proprio luminoso, appassionato e quasi ingovernabile talento.
«Non ho scelto questa vocazione, e se avessi avuto voce in capitolo, non l’avrei scelta», spiega ancora Porter in quel suo breve autoritratto del 1933, subito aggiungendo: «Tuttavia è per questa vocazione che ero e sono disposta a vivere e morire, e considero di maggiore importanza ben poche altre cose». Era stato pubblicato solo tre anni prima il suo libro d’esordio, L’albero di Giuda in fiore, un volume di racconti che insieme ai successivi Bianco cavallo, bianco cavaliere (1939) e La torre pendente (1944) andrà a comporre nel ’65 il definitivo The Collected Stories. Allestita sull’onda del grande successo di pubblico ottenuto dall’unico romanzo La nave dei folli (’62), premiata con il Pulitzer e con il National Book Award, la magnifica raccolta integrale dei racconti, ventisei tra brevi e lunghi, sarebbe stata tradotta in italiano per Einaudi già nel 1966 da Lidia Storoni Mazzolani, ma in seguito mai ristampata. Più di mezzo secolo dopo ritorna finalmente disponibile nella nostra lingua grazie a Bompiani, con il titolo Lo specchio incrinato («Narratori Stranieri», pp. 636, € 30,00), preso non proditoriamente in prestito da uno dei brani più significativi e nella nuova, bellissima versione di Giovanna Granato, esatta quanto flessibile, limpida, empatica. Come nell’originale apre il volume Marìa Concepciòn, un piccolo gioiello luminoso di riverberi in cui si rivela già tutta la potenza abbagliante della narrativa di Katherine Anne Porter. La sua rigorosa, fatale per quanto smaltata necessità.
Scavo verso la sorgente di un pozzo
Scappa la ragazza Marìa Concepciòn e scappa anche il suo uomo; non diversamente da loro scappano i protagonisti degli altri racconti. Scappano perché hanno tradito, o al contrario tradiscono perché non possono fare a meno di scappare via da qualcosa: da se stessi, dalla vita, dalle proprie ambizioni deluse. Scappa fuori dal circo o dentro gli incubi della febbre Miranda, scappa nei sogni ingannatori Rosaleen che ha perso un bambino, scappa l’indomabile Amy nel suo matrimonio sbagliato. C’è chi scappa in un’illusione o in una menzogna, chi nell’alcol, chi attraversando il mare; tutti tradiscono il proprio cuore e anche quello di coloro che hanno vicino. Lo sguardo di Katherine Anne Porter si posa sui suoi personaggi con un’intenzione precisa, mai spietata però lucida: siano giovani o vecchi, vivano in Texas o a New York, perfino in Europa, l’autrice li segue osservandoli con un’attenzione così ferma da inchiodarli alla loro fuga e anche alla loro slealtà. Non si tratta però di un percorso in superficie, costellato di fatti, ma di uno scavo che procede verso la sorgente di un pozzo, dentro la dimensione tutta interiore, psichica di ogni singola storia.
Un’opzione soprattutto morale
«In quel momento si sentì derubata di un numero enorme di cose di valore, materiali o astratte che fossero: cose perse o rotte per colpa sua, cose che aveva dimenticato e lasciato nelle case trasferendosi: libri che aveva prestato e mai riavuto indietro, viaggi che aveva progettato e mai fatto, parole che si era aspettata di sentir dire e non aveva sentito e le parole con le quali si era ripromessa di rispondere; alternative amare e sostituti intollerabili peggiori di niente, eppure inevitabili: la sofferenza lunga e paziente di amicizie moribonde e l’oscura, inspiegabile morte dell’amore – tutto ciò che aveva avuto e tutto ciò che le era mancato erano persi insieme, e persi due volte nella frana di perdite rievocate», confessa l’autobiografica protagonista di uno dei racconti. Assecondando una tensione molto modernista e un’opzione che è soprattutto morale, servendosi di una lingua solo in apparenza piana, in realtà increspata da sfumature e mobili riflessi, utilizzando fuochi prospettici multipli in un mutevole flusso di coscienza, questa scrittrice che ha molto amato James Joyce e Katherine Mansfield e Henry James racconta dei suoi personaggi proprio ciò che, in ogni fuga, di loro è andato smarrito. Quello che nemmeno ricordavano o immaginavano di possedere.
Ha dichiarato Porter in un’intervista che il lavoro dello scrittore è «prendere queste manciate di confusione e di materiali diversi» da cui è composta la vita e chiuderle «in una cornice per offrire loro qualcosa che somigli a una forma e a un significato». Certo parlava della confusione della sua propria vita, delle sue fughe continue e delle sue molte perdite. Ma in questi racconti anche il lettore troverà una forma costruita apposta per lui. Così perfetta che non vorrà uscirne mai più.