Per quanto i centocinquant’anni trascorsi dalla presa di Roma siano stati ricordati in vario modo sui media, l’attenzione è stata per lo più riposta sul fatto militare – un blitz, l’entrata dei bersaglieri nella città papale, contro la Francia protettrice del Papa ma in ginocchio, pochi giorni dopo l’inutile massacro di Sedan – e sulle implicazioni che ebbe nei rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica.

EPPURE, quella ricorrenza che tanto ha segnato la storia italiana – ogni città ha una via XX Settembre – rappresentò il culmine del processo di unificazione del Paese e l’inizio di una storia unitaria che ha conosciuto alti e bassi e che oggi, allo scadere del secolo e mezzo, vale la pena ripercorrere. Perché è con la creazione del Regno d’Italia nel 1861 e l’annessione di Roma nel 1870 che viene a cadere l’ultimo degli Stati, quello Pontificio, nei quali era stata suddivisa la penisola per più di un millennio e che nasce l’Italia moderna. Quell’Italia che per Metternich, ancora al Congresso di Vienna del 1815, non era che una «espressione geografica» – non diversa però da Germania o Belgio, ad esempio – entrò nella modernità in ritardo rispetto ad altri Paesi e nei centocinquant’anni successivi ha poi corso, è rimasta nuovamente indietro, è tornata avanti e oggi appare come fosse ferma al palo.

L’Italia del 1870, con Roma che sarà subito eletta a capitale, scontava pesantemente quella secolare suddivisione, che era non solo istituzionale e giuridica, ma culturale, sociale ed economica. Territori che erano stati separati e divisi andavano unificati in tutti i sensi, colmando divari e riducendo distanze.

SE A SPINGERE l’unificazione era stata una miscela di spirito nazionalistico e ambizione politica, per dare al Paese più peso internazionale, essa fu per lo più voluta dalla nascente borghesia industriale del Nord sostenuta da un certo sentimento popolare desideroso di affrancamento, cavalcato dal «socialismo» garibaldino. Ma il Paese era ancora arretrato, nel suo complesso, povero e analfabeta, frenato da un dualismo tra i centri urbani centro-settentrionali e le campagne mezzadrili o contadine o i latifondi del Sud di masse affrante da miseria secolare e immobilismo sociale. E i divari, le differenze di ceto e territoriali erano notevolissimi e molta sarebbe stata la strada da percorrere lungo il sentiero dello sviluppo.

TRA IL 1870 E IL 1915, l’Italia si avvia lungo il sentiero dello sviluppo industriale, in parte spinta dall’intervento dello Stato, in parte preparando il «decollo», scontando però l’esodo migratorio. L’Italia di Giolitti, in particolare, tra il 1900 e il 1915, vedrà tassi di crescita e di miglioramento del tenore di vita che rivivrà solo dopo il 1945. In quei quarantacinque anni, tre classi dirigenti si alternano, pur dentro un paradigma liberale: una destra «cavouriana», elitaria, che però prepara la macchina dello Stato allo sforzo della modernizzazione; una sinistra protezionista, tra Deprestis e Crispi, che però soffre lo scontro sociale; e una classe più oculata, quella giolittiana, che ha una «visione» dello sviluppo e guarda avanti (anche se trascinerà il Paese nell’abisso della Grande Guerra, sonnambula come tutte le classi dirigenti d’Europa).

L’impatto sociale della guerra, com’è ovvio, fu drammatico. Le contraddizioni che esplodono vengono però vissute dalla borghesia conservatrice preferendo la tutela «reazionaria» al modello giolittiano, lasciando mano libera alla deriva fascista, nella miopia delle forze popolari e di sinistra. Sotto dittatura, l’Italia vive il suo «ventennio perduto» ristagnando. E la guerra farà tornare il Paese un trentennio addietro.

L’ITALIA NEO-REPUBBLICANA del dopoguerra diede il meglio di sé e nei trent’anni successivi conobbe il suo «miracolo» economico, a partire da tre presupposti sui quali costruì il suo rilancio: l’accettazione del piano di aiuti americano, con le sue implicazioni politico-strategiche; l’integrazione nel sistema monetario internazionale a cambi fissi e la liberalizzazione del commercio, con l’ancoraggio all’Europa che sfocerà nella Cee che nasce a Roma nel 1957. Intervento statale in economia e nelle infrastrutture, poche grandi imprese e una notevole diversificazione produttiva che favorirà lo sviluppo della piccola e media impresa che, grazie al più basso costo del lavoro, riuscirà poi a fare del made in Italy la carta vincente sui mercati europei. Tra il 1947 e il 1969 l’economia italiana raggiunge la quasi piena occupazione, il divario tra Nord e Sud si riduce, grazie anche alla massiccia emigrazione, il reddito cresce del 5% l’anno. I livelli salariali, però, sono ancora bassi e le rivendicazioni operaie dall’autunno «caldo» in avanti vedranno la classe imprenditoriale arroccarsi vieppiù. Ma la divaricazione tra redditi da lavoro e da capitale raggiunge il suo minimo.

LA CRISI del 1973 darà il via alla «riconversione» industriale, cui seguiranno anni di disoccupazione crescente e alta inflazione. Nelle classi dirigenti, che pure nel dopoguerra avevano mostrato ampiezza di vedute fino alla formazione del centro-sinistra, matura un atteggiamento di mantenimento dello status quo sociale, la «programmazione» economica perde respiro strategico, si preferisce il «compromesso senza riforme» (Fabrizio Barca), ampliando lo stato sociale ma accompagnandolo con politiche clientelari, con il placet dell’imprenditoria.

Dopo la fine di Bretton Woods, l’Italia sperimenta le svalutazioni competitive, puntando sul suo made in Italy, innovando poco o niente e glorificando la sua piccola impresa («l’economia di Pollicino» di Marcello De Cecco). L’Italia, così, continua a crescere, fin quasi a raggiungere nella sua rincorsa i paesi più avanzati. E intanto i suoi governi tengono buoni gli animi, mentre la disoccupazione preme e la tensione sociale cova, aumentando la spesa pubblica a suon di debito. Tra il 1989 e il 1992 avviene la svolta che darà l’impronta al trentennio successivo. Il 1992 è l’anno della crisi valutaria, della «stangata» del governo Amato, di «tangentopoli». E del trattato di Maastricht. Questo consente, sì, di tornare ai cambi fissi e al controllo del debito, ma a pagare è il sistema di protezione sociale, mentre è iniziata la globalizzazione di cui ancora non se ne comprende la portata. Si punta sulla crescita neo-liberista – «la marea che farà salire tutte le barche» – ma l’economia arranca e il risultato è un costante aumento delle disuguaglianze e l’Italia arretra.

QUANDO ARRIVA la crisi del 2008, l’Italia è già in affanno e iniziano «gli anni più neri» della nostra storia (Pierluigi Ciocca), quelli del rallentamento e del declino. Se guardiamo indietro, vediamo che sono 75 anni ormai che il Pil cresce sempre di meno (e oggi è tornato ai livelli del 1995), la povertà è aumentata, il Sud si è di nuovo allontanato, le disuguaglianze sono aumentate, la mobilità sociale è ferma. E poi, l’analfabetismo di ritorno e funzionale riguarda il 30% della popolazione, il Paese ha meno laureati degli altri e quelli che ha guadagnano meno.
In tutto questo, le nostre classi dirigenti navigano a vista. Gli imprenditori puntando, ancora, sulla riduzione del costo del lavoro e sulla flessibilità, come se fossero quelle le nostre zavorre. La classe politica, cavalcando rivendicazioni demagogiche e protezionistiche, priva di visione, senza capire che non è scritto da nessuna parte che si è «ricchi per sempre». Ciò che ci insegna la longue durée, piuttosto, è che potremmo essere ricchi «per caso» e il nostro momento potrebbe essere arrivato.