Porfido & coca: l’inquietante tango argentino con l’eco ai piedi delle Dolomiti. Dietro la pietra rossa spunta una montagna di polvere bianca. Con lo stupefacente filo logistico tra il Distretto dell’Adige e i Cartelli del Sudamerica.

Una frode clamorosa e criminale che avrebbe già dovuto richiamare l’attenzione dell’Olaf, l’organismo Ue diretto dal magistrato trentino Giovanni Kessler. Il fascicolo informativo, invece, è già stato «segnalato» alla Commissione antimafia: spetta alla presidente Rosi Bindi decidere di approfondirlo, a cominciare dalla completa identità dei protagonisti italiani.

È un puzzle mondiale con le tessere sparse (letteralmente) tra due continenti. Ma la pista è spianata. E gli indizi risultano perfino abbondanti: dai rapporti della Polizia Federale argentina ai faldoni della magistratura spagnola, dalle inchieste dei quotidiani della Patagonia alle interrogazioni al presidente del consiglio della Provincia autonoma di Trento. Basta incastrare i pezzi.

Il «ponte»

Primavera 2014. Una perquisizione più accurata del solito: i doganieri di un porto nel sud della Spagna passano ai raggi x la stiva del cargo. La nave proviene dall’Argentina e, sulla carta, trasporta porfido. Fin qui, nulla di strano: lo scalo iberico è tra gli hub di riferimento per le spedizioni del settore e la merce corrisponde alla bolla d’accompagnamento. Eccetto per un particolare: 200 chili di cocaina purissima…

Una scoperta straordinaria, quanto allarmante: lo stock vale più di 20 milioni di euro nel mercato della droga al dettaglio. Scatta il sequestro e i magistrati locali avviano ufficialmente l’indagine giudiziaria. Alla base un’ipotesi: lo scalo spagnolo è un pilastro del «ponte della droga» tra Europa e Sudamerica. E una certezza: il business della polvere bianca naviga di conserva con l’economia delle pietre rosse.

È il primo, diretto, incontestabile link: conduce dritto al mittente. Per questo la magistratura spagnola spedisce, con l’urgenza del caso, i documenti del sequestro ai colleghi della Cancillería Nacional argentina.

Pietre Unite

La carta d’identità dello spedizioniere salta fuori quasi subito, anche perché l’inchiesta passa alle competenze della Divisiòn Delitos Complejos della Polizia Federale e della Direzione generale delle dogane. Insieme, danno il via all’operazione «Piedras blancas» sull’export della cocaina dietro all’import del porfido.

Il primo passo è la perquisizione della sede legale di United Stones, la società che ha movimentato il carico a Puerto Madryn, in Patagonia. Poi la visura camerale della proprietà. E qui scatta il versante italiano: la società appartiene (anche) a imprenditori trentini. E di origine trentina è la legale rappresentante, che la polizia cerca di rintracciare.

Il resto lo dettaglia l’archivio delle spedizioni della ditta, che dà ragione ai giudici spagnoli: il doppio carico non è per nulla occasionale; sporadica è soltanto la scoperta. Carte alla mano, porfido & coca viaggiano insieme da almeno 5 anni, e in testa alle spedizioni ci sono «imprenditori» colombiani. Una ragnatela, gettata tra Atlantico e Mediterraneo, che muove indifferentemente pietra e polvere. Un mercato drogato all’origine.

Uno dopo l’altro emergono gli altri tasselli del mosaico: dai 200 chili di cocaina (parte di una maxi-partita di 600) ai colombiani (reclutati da uno studio legale in Patagonia), fino al coinvolgimento di altri due «uffici» con sede nell’Avenida Roca e nel Barrio Sur di Puerto Madryn.

Ma a Buenos Aires, all’ordine del giorno, non c’è solo l’operazione «Piedras Blancas»: le spedizioni di droga da Puerto Madryn verso l’Europa continuano senza sosta. A tenere accesi i riflettori è El Chubut, quotidiano locale che il 29 aprile scorso ha pubblicato il bollettino della guerra al narcotraffico e chiesto lumi alla Corte federale sulla conclusione di un’analoga indagine che ha portato al sequestro di altri 110 chili di cocaina purissima nei locali della società Poseidon.

Cronaca locale? Non proprio. E infatti l’interesse non si trattienein Patagonia o in Argentina. Gli articoli vengono letti, con rinnovato interesse, nelle valli di Trento. Qui il Distretto del porfido fa sempre notizia: così Ubaldo Cordellini nelle pagine del Trentino – senza poter scrivere un singolo nome – annuncia che «gli imprenditori del porfido in questi giorni stanno tremando».
Un mistero non troppo fitto, dunque. Come non sembra un segreto la ricetta per far galleggiare l’«oro dell’Adige» in tempo di crisi.

Il tango in Provincia

Trento, 4 giugno. Claudio Civettini, consigliere della Lega Nord, interroga Bruno Dorigatti (Pd), presidente del Consiglio della Provincia autonoma. Oggetto dell’interpellanza numero 589 il «tango argentino» intorno alle poltrone della società pubblica Progetto Manifattura. L’azienda sta per essere incorporata da Trentino Sviluppo (ente della Provincia, attualmente guidato dal sindaco leghista di Verona Flavio Tosi) in una nuova area che si occuperà di green economy, meccatronica, edilizia e… settore lapideo. In tre pagine, le preoccupazioni di Civettini per l’operazione e i dubbi sulla «fusione fredda».

Il consigliere disegna la cornice del quadro: c’è «troppo porfido straniero» in Trentino, con società locali che importano la pietra a prezzo inferiore facendo concorrenza al vero Distretto dell’oro rosso. Civettini squaderna sigle, che altrove non significano nulla, ma che a Trento tutti sanno tradurre nelle imprese del porfido: «come PP., PI., PP., PVZ, C. e M. in Argentina, PdM. in Messico e le nuove iniziative di BC. in Cina e PC. in Bulgaria».

Quindi mette a fuoco l’atto di costituzione di una società anonima. Si chiama Nsp (come certifica il Boletin Oficial de la Republica Argentina del 27 giugno 1990), «in cui, salvo curiose omonimie, sembrerebbero figurare associati noti nomi di imprese di materiale porfidico in Trentino concorrenti fra loro». Nell’interpellanza il consigliere evidenzia «strutture societarie all’estero delle principali aziende estrattive che non paiono favorire la ricaduta dei profitti sul territorio».

Non è un dettaglio di poco conto: in materia di pubblica assegnazione, «la normativa sembra prevedere che le società debbano dichiarare la loro effettiva compagine societaria, in modo da escludere eventuali accordi fra ditte». Invece «in Argentina come in Russia nella regione di Vladimir, risulterebbero operare, salvo omonimie di brand, le società OP e RI».

Il tango delle aziende del porfido si balla da anni: a Trento lo sanno anche i sassi. Il refrain torna puntuale anche quando si discute di fallimenti in Tribunale, con società che chiedono il concordato, mentre generano utili proprio con le partecipate sudamericane. Esemplare il caso dell’azienda OP citata da Civettini: in Argentina possiede le controllate SIP (cioé 10 mila ettari di giacimenti porfirici) e PP (connessa alla holding SP con sede in Lussemburgo) che vanta un patrimonio netto pari a 8,3 milioni di dollari.

Un’economia parallela, anzi perpendicolare, che non conosce crisi e si controlla a debita distanza. Un’anomalia nell’autonomismo trentino. Per questo, Civettini chiede «se alla luce delle informazioni circa le attività delle società del porfido in Italia e all’estero, il presidente della Provincia non ritenga doveroso promuovere un’attività ispettiva sui finanziamenti erogati dall’ente di cui avrebbe la rappresentanza legale». E conclude, sollecitando adeguata trasparenza sulla «reale funzione dell’incorporazione di Progetto Manifattura, Arca Casa Legno e Distretto del porfido in Trentino Sviluppo».
Già, a chi serve il porfido?