Non è certo un instant book il nuovo libro di Alessandro Ballarin: Pordenone ma anche Correggio e Michelangelo, Officina libraria-Edizioni dell’Aurora (pp. 614, 500 ill. a colori e b/n, euro 45,00) Anche se vederlo uscire giusto in tempo per la recente mostra Il Rinascimento di Pordenone poteva farlo pensare. Un’opera che sfida il tempo e l’intelligenza del lettore come tutti i volumi di Ballarin, stampati prima con Bertoncello, poi con Grafiche Aurora. Non è il solito lussuoso tomo di grande formato, ma un ben più accessibile volume in-ottavo, che non rinuncia alla composizione in Bembo e alla solita partizione di testo e tavole su carte diverse (purtroppo i numeri non sono più maiuscoletti). Una sola tavola estravagante, all’interno della prefazione, illustra, come in un’edizione critica, il «manoscritto ritrovato» del 1989, cioè le pagine sulla storia del Pordenone, scritte al termine di un decennio ricco di occasioni di studio che portarono a maturazione le ipotesi sul pittore friulano pubblicate nei primi anni sessanta, su cui si fonda il nuovo libro.
Stagione di studi irripetibile
Il testo è presentato come il documento di una stagione irripetibile, e un po’ mitica ormai ne appare la storia. Lasciato per lavorare al catalogo di Le siècle de Titien del 1993 – la mostra di Parigi, Grand Palais, svoltasi sotto l’egida di Michel Laclotte –, esso è riemerso, grazie alle cure di Vittoria Romani e Barbara Savy, con l’intento di entrare nell’ultimo volume del Giorgione e l’Umanesimo veneziano. Ma rivela, come scritto da un altro, una storia che oltrepassa i problemi discussi nel Giorgione, e quindi ne è stato escluso. Si addentra infatti nelle vicende della grande pittura italiana degli anni venti del Cinquecento su cui Ballarin ha troppe cose da dire, sicché il debordare è rimasto pure nel titolo del nuovo volume, solo apparentemente monografico, su Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone: «ma anche Correggio e Michelangelo», e tanto altro.
L’aggiornamento per la pubblicazione ha comportato l’aggiunta di osservazioni sugli anni giovanili dell’artista, al lavoro nel castello di San Salvatore a Susegana (Treviso), sugli anni trenta e la misteriosa fine a Ferrara: un nuovo inizio e uno sviluppo fino all’epilogo. Ne risulta un volume composto come un romanzo, niente note o indici, tanto testo che non va quasi mai a capo e sembra non voler finire. Dove è facile perdersi, se non si è molto attrezzati.
E, arrivati in fondo a quelle pagine, un nuovo inizio. Il titolo si ripete nell’occhiello, il testo si concentra in didascalie, niente note e apparati, ma cinquecento immagini che danno vita a un nuovo racconto: sequenze a colori si alternano a un affascinante bianco e nero, flashback, digressioni, anafore, primi piani insistenti e perfino un cameo alla Hitchcock (tav. 128). Il romanzo diventa film ed è facile, e dolce, perdersi benché avvertiti. Rispetto alle precedenti opere sembra più evidente qui il dialogo tra gli strumenti espressivi. Ma stavolta la parte testuale sembra vincere il confronto.
Sulla scorta delle vecchie pagine, un immenso capitolo racconta una storia del Pordenone che ha limiti molto netti, dalle ultime opere per la chiesa di San Salvatore a Susegana fino al termine dei lavori per la chiesa di Santa Maria di Campagna a Piacenza (1511-’32). Un estenuante esercizio di lettura per inseguire un artista che fin da giovane, come Lotto, documenta la formazione di una cultura alternativa nell’Italia padana: mai sazio di nuove esperienze, mai fermo e pur sempre riconoscibile, il Pordenone è come il vento che scuote la pala della Misericordia – il capolavoro dipinto per la sua città nel 1515 – e ne intorbida il paesaggio giorgionesco. È chiaro che per Ballarin seguire le strade del maestro friulano ha significato riflettere sulla storia della pittura nella pianura padana, dalla formazione di una «cultura protobarocca» al confronto con la Maniera.
I temi toccati da questo libro, che non concede favori, danno l’idea della complessità delle questioni discusse sul filo sempre teso della cronologia. Si parte con la scoperta di una fase bramantesca (acuta fino al 1513) a ridosso dei lavori per i conti di Collalto, in sintonia con l’esperienza lombarda di Lotto. Segue una stagione veneziana, post-giorgionesca (1514-’16). E l’evidenza di un primo viaggio romano (primavera del 1516) per comprendere l’attenzione a Raffaello e l’avvio della stagione del «protobarocco padano» annunciata dagli emozionanti affreschi del coro di Travesio, nell’alto Tagliamento (1517-’18). Dove è forte pure il confronto con il Tiziano dell’Assunta appena collocata nella chiesa veneziana dei Frari. Un incrocio pazzesco, che esplode nella cappella Malchiostro del duomo di Treviso, uno spazio di pittura illusiva che appare all’autore «un evento epocale» e inaugura la prima stagione michelangiolesca (1519-’20), esito immediato di un nuovo viaggio a Roma.
Il discorso prosegue nel duomo di Cremona, prima con le punte espressionistiche della Crocifissione (1521), poi con un linguaggio che si rasserena nel segno del Correggio di San Giovanni Evangelista a Parma. Il pittore friulano ne è segnato fino alla Deposizione di Cortemaggiore (Piacenza), qui datata 1524, ma nella stessa chiesa di Santa Maria Annunciata la decorazione della cappella Pallavicini ha già i segni di una lingua più ferma e classica: è spettacolare il confronto della pala per quella cappella, oggi a Capodimonte, con Sebastiano del Piombo (tavv. 151-152), confronto che suggerisce l’ipotesi di un terzo viaggio romano, nella Roma di Clemente VII (maggio 1525). Vi si legge un ritorno a Michelangelo e all’ultimo Raffaello che si riflette su Dosso Dossi, Boccaccino e Giulio Campi. Ne consegue un riassestamento della cronologia che investe pure la pala Pesaro di Tiziano nella chiesa dei Frari a Venezia (1526 o 1525?). A questo punto si apre una lunga parentesi bolognese, protagonista Girolamo Marchesi da Cotignola.
Misterioso ritorno a Venezia
È il primo di una serie di affondi che ci separano dal 1530 e dall’exploit della decorazione della chiesa di Santa Maria di Campagna a Piacenza, con cui si chiudeva il testo del 1989: le sezioni su Tiziano, Correggio, Michelangelo e la Maniera risultano come dei saggi a parte. Se ne può dare solo un indizio incompleto e provvisorio. Il misterioso ritorno del Pordenone a Venezia nel 1527, forse per le portelle dell’organo della chiesa di San Rocco o il concorso per il San Pietro Martire nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, poi vinto da Tiziano con il capolavoro perduto nel 1867, apre sull’attività di Tiziano per le corti di Mantova e di Ferrara. Le riflessioni sulla Maniera, sulla forma serpentinata e l’evoluzione di Michelangelo negli anni della repubblica fiorentina, con il suo soggiorno a Venezia nell’autunno del 1529, stanno a monte dell’aggiornamento di Pordenone. Quindi la decorazione della chiesa piacentina è affiancata da una lunga digressione sull’evoluzione di Correggio dalla cupola di San Giovanni Evangelista all’Assunzione della Vergine nel duomo di Parma.
Il finale, come s’è detto, bonifica la cronologia delle opere degli anni trenta, prima delle osservazioni sulla scomparsa del pittore a Ferrara nel gennaio 1539.
È evidente che si tratta ancora una volta, prima di tutto, di un esempio di metodo, governato dal radar, sempre più raro, della lettura stilistica, dall’attento spoglio dei dati figurativi e da un loro ampio incrocio a fronte di documenti e dati materiali. Significativamente dedicato a Ferdinando Bologna, il volume ha trovato posto nella libreria di chi scrive accanto al primo Lotto di Berenson (1895), a poca distanza dai vecchi volumi Sansoni con l’opera completa di un unico autore, appena usciti da scatole da troppo tempo conservate in magazzino.