È curioso. Una notizia di rilievo come il primato del Front national, oggi virtualmente primo partito di Francia col 24% dei voti (2 punti più dei neogollisti, ben 5 più dei socialisti), è subito scomparsa dai giornali italiani. E sì che questa novità, a pochi mesi dalle europee e da un’importante tornata amministrativa, ha messo a soqquadro la scena politica d’Oltralpe. L’irresistibile ascesa del partito di Marine Le Pen (+3% negli ultimi mesi; +6% rispetto alle presidenziali del 2012) da una parte costringe i socialisti a ipotizzare alleanze con l’Ump, dall’altra apre nel centrodestra un aspro confronto tra chi auspica la costituzione di un «fronte repubblicano» contro i fascisti e chi invece – fingendo di ignorare in che putridume il Fn affondi le radici – vorrebbe allearsi con loro per tornare al potere.

È vero che la stampa italiana brilla per un proverbiale provincialismo. Ma la Francia è ormai una provincia dell’Europa che decide delle nostre sorti. E poi in questi giorni tiene banco un tema – le stragi dei migranti in fuga dalla Siria – che dovrebbe richiamare l’attenzione sul terremoto nell’opinione pubblica francese. Non sono forse questioni strettamente legate? La battaglia contro l’«immigrazione selvaggia» degli «islamisti» è il cuore della propaganda del Fn. E immigrazione, qui e ora, significa, per la stampa italiana, Beppe Grillo, il quale pure dovrebbe far pensare al Fn e ai suoi travolgenti successi. Tra Grillo e Le Pen sussistono importanti analogie. Entrambi agitano il rifiuto populista della polarità destra/sinistra; evocano la guerra tra poveri come conseguenza di presunte politiche migratorie inclusive; si appellano al popolo incontaminato e puntano a incassare il dividendo della paura e del disagio cavalcando crociate contro l’euro e contro la casta.

Allora forse le questioni da porsi sono due, intrecciate tra loro. Bisogna in primo luogo chiedersi che cosa dice questa gloriosa marcia del Fn in Francia. Che cosa dice della pancia francese, e anche della pancia europea, al tempo del neoliberismo maturo. Ogni passo avanti del capitale privato nell’unificazione dei mercati del lavoro e dei capitali costa lacrime e sangue alle masse popolari, scaraventate nella concorrenza con i paesi «in via di sviluppo» e nella miseria, e ciò indipendentemente dal fatto che la modernizzazione porti con sé l’aumento della produttività complessiva del sistema. Se non c’è tutela del lavoro e un’equa distribuzione dei costi delle trasformazioni, non guadagna la sinistra (come pensa chi si illude che la spietatezza del capitalismo ingrossi automaticamente l’esercito dei suoi «becchini») ma la destra radicale, che ha buon gioco nell’accusare la democrazia, incassando sia sul piano economico che su quello politico.

Marine Le Pen stravince da quando ha fatto del vecchio partito neofascista del padre, ancorato al passato pétainista e ai suoi valori eroici e necrofili, un partito «popolare e patriottico». L’elettorato al quale guarda è costituito dal ceto medio e dalla classe operaia, in mezzo alla quale si è fatta le ossa: dalle classi più colpite dalla crisi, alle quali il Fn promette sicurezza e lavoro, case e servizi, e, naturalmente, lotta senza quartiere contro islamici e nomadi – visto che degli ebrei non conviene, per il momento, far menzione.

Siamo a questo tornante e – siccome non è la prima volta (molti elementi ricordano l’Europa degli anni Venti-Trenta) – meraviglia che non ci si accorga della gravità dei sintomi. Qui per l’appunto si pone la seconda domanda. Come mai non ci si avvede di questa gravità? Perché ci si dimentica subito dei campanelli d’allarme che suonano in Francia, in Germania e in Austria, per non dire dell’Ungheria e della Grecia?
Una prima spiegazione chiama in causa l’inconsapevolezza di chi sottovaluta la portata storica del segnale che viene da Oltralpe perché semplicemente non vede, non ricorda, non connette. O rifiuta una realtà troppo inquietante. Non si comprende il pericolo (la Francia profonda, terreno di coltura del razzismo e del fascismo europeo). Si dimentica che le peggiori tragedie del Novecento in Europa – nella Germania dell’agonia di Weimar – scaturirono dalla ribellione delle masse contro politiche deflattive. Non si capisce che la storia ha il respiro lungo, che il Novecento dura ancora e ci trasmette le scorie della storia precedente, delle contraddizioni irrisolte e dei duri conflitti da cui è nata la modernità.

Una seconda spiegazione coinvolge la furbizia di chi invece distorce consapevolmente le cose, interessandosi soltanto dei vantaggi immediati della propaganda spicciola. Un brillante esempio è un recente editoriale di Antonio Polito sul Corriere della sera, che approfitta dell’avanzata della destra nei paesi occidentali (Stati Uniti compresi) per cantare la solita filastrocca alla «sinistra», intesa come Partito democratico. Si moderi, rinunci al progetto giacobino di «tosare i ceti medi», altrimenti regalerà le masse alla destra reazionaria. Persino Renzi diventa un esempio di estremismo, così da avvisarlo di cosa lo aspetterà una volta conquistata la segreteria democratica.

Tutto questo non è soltanto ridicolo, visto che difficilmente il Pd potrebbe essere più moderato. È irresponsabile, considerato il pulpito della predica, e la funzione nazionale che dovrebbe svolgere. In Italia come in Francia come in tutta Europa le forze democratiche perdono credito e consensi proprio perché schiacciate sulle posizioni egemoni in Europa. Proprio perché da almeno vent’anni hanno lasciato il lavoro senza rappresentanza, spingendo milioni di persone a perdere fiducia nella politica e nelle istituzioni. Sermoni come questi potranno pure fruttare qualche utile nell’immediato, contribuendo a tenere la barra della politica italiana ben salda al centro. Ma alla lunga rischiano seriamente di fare il gioco della destra più retriva. Premiando anche in Italia le fatiche degli imprenditori politici del populismo e del razzismo, e mostrando di che nobile pasta è fatta la nostra sedicente «buona borghesia».