Pop songs oltre il messaggio e il linguaggio
Note sparse Si intitola «Fru Fru» il nuovo progetto musicale di Edda che si allontana dal rock per abbracciare melodie ampie ed elettronica
Note sparse Si intitola «Fru Fru» il nuovo progetto musicale di Edda che si allontana dal rock per abbracciare melodie ampie ed elettronica
Per Alberto Arbasino, alcune giornate possono inserirsi in una «twilight zone» lavanda e violetta fra il «conosci te stesso», l’autoritratto, e le pippe. E questo limbo sembra materializzarsi divinamente durante l’ascolto dell’ultimo, straordinario disco di Edda, Fru fru, che proprio di crepuscoli sembra respirare e colorarsi in un continuo e frenetico scambio di ruoli e prospettive. Il titolo non vuole richiamarsi a un verso de L’assiuolo pascoliano «Spingo piuttosto ad assomigliare a Lino Banfi o a Pippo Franco» ci ha raccontato il cantante «o alla leggerezza dei wafer, chiamati per l’appunto fru fru in alcune zone d’Italia, alla loro consistenza friabile e senza uova». Il disco sembra anche stabilire definitivamente l’allontanamento dal rock per abbracciare, senza più sensi di colpa, l’elettronica al pop e alla melodia italiana degli anni ’60/70, con la quale Edda è cresciuto, e che aveva già in parte esplorato nel precedente Graziosa utopia, come in brani che rispondono al nome di E se (con chitarre funky alla Alan Sorrenti), o Vanità (un incedere ritmico che ricorda Caterina Caselli).
«MI SONO LASCIATO alle spalle il passato. Sono cresciuto col punk e devo esserne grato perché ha permesso a gente come me di suonare. Sono un cantante ma non ho la voce di Claudio Villa e per questo oggi amo e rispetto la trap che spacca la metrica e riesce ad accogliere molte più parole. Per me la musica e il canto sono emotività. Vivo la musica a un altro livello, come se le canzoni fossero ninne nanne, prima c’è la voce, il suono, l’emozione». Intimamente scisso fra sacro e profano e maschile e femminile, Edda sembra rilasciare, nei suoi testi, dei blocchi emotivi fortissimi, un flusso di coscienza che sposa, senza inibizioni, gli odiati testi liceali di Ovidio e Orazio (ultima traccia dell’album) a preghiere carnali (Mica mi son mai pentita/Fammi godere con le dita) «Il mio modo di comporre non si differenzia molto dall’epoca dei Ritmo Tribale. Mentre ascolto della musica, nella mia testa comincio a «suonarne» un’altra. Così lavoro sulla melodia, che per me è la cosa più importante. Per quanto riguarda le parole, non scelgo mai di cosa parlare, ho, dentro di me, un distillato di emozioni che fuoriesce. È una cosa fulminante, sono rilasci irrazionali di endorfina, come il flash di una droga potente. Non bisogna chiedere troppo a un cantante, non deve dire cose intelligenti a tutti i costi. La potenza di una canzone va oltre il messaggio e il linguaggio».
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