I I Il western e la fantascienza. L’archeologia del cinema e TMZ. Satira e paura. Quando non ci riporta indietro nel tempo, sul set di una sitcom televisiva che sembra devastato da un ciclone e in cui si aggira uno scimpanzé coperto di sangue, Nope (in Italia dall’11 agosto) è ambientato in un ranch di Agua Dulce. Il paesaggio – altopiani deserti e nessuna casa in vista; di un paese nemmeno l’ombra- sembra remoto. In realtà siamo una cinquantina di chilometri a nord di Los Angeles, nella Santa Clarita Valley, set storico di western di serie B (ma anche Mezzogiorno e mezzo di fuoco), dove ancor oggi si possono affittare pittoresche Main Street di Frontiera, con saloon, banche da svaligiare e porticati sotto cui fare la siesta. A circa una ventina di minuti di macchina dai teatri di posa di WB, Universal e Disney, questo mondo un po’congelato nel tempo è una residenza favorita degli stuntmen, con colline punteggiate di piccole fattorie in cui, dagli albori di Hollywood, si allevano cavalli per le produzioni di film e tv.

In pochi stacchi sicuri, il regista dissesta la comfort zone dello spettatore e poi la riassesta nell’universo particolarissimo della sua arte

HAYWOOD HOLLYWOOD, il luogo del nuovo lavoro di Jordan Peele, è uno di quei ranch – la sua storia così intrinsecamente legata al cinema che (apprendiamo all’inizio) uno degli antenati dei proprietari, Alistair Haywood, sarebbe il fantino afroamericano ritratto in una delle famose foto in movimento di Edward Muybridge. Nonostante gli effetti digitali e l’obsolescenza dei western, abbiano messo alle corde il business di famiglia, Otis Haywood, sta spiegando a suo figlio O.J (Daniel Kaluuya) che il film e la tv esiteranno sempre, quando si accascia sulla sella, mortalmente colpito in un occhio da una vecchia moneta precipitata dal cielo a velocità supersonica. In pochi stacchi sicuri, Peele, dissesta la comfort zone dello spettatore e poi la riassesta nell’universo particolarissimo della sua arte – un mix di pop, sovrapposizioni di generi, antropologia, politica e puro cinema- tra i più eccitanti delle generazioni post New Hollywood e che, dal primo lungometraggio, Get Out, lo ha portato in direzione sempre più ardita, quasi astratta.

Nonostante i suoi riferimenti riconoscibili all’universo bis di Jack Arnold (Destinazione…Terra!) e al moderno blockbuster fantascientifico (Incontri ravvicinati del terzo tipo), più le strizzate d’occhio all’Hitchcock di Intrigo internazionale, Nope è solo in apparenza un film più semplice e lineare di Noi o meno politicamente esplicito. La sua dimensione «meta» -inquadrata fin dall’inizio nell’ambientazione western, più il set insanguinato della sitcom e quello in cui OJ si trova a cercare di «far recitare» uno dei suoi cavalli- come un tunnel di specchi, in cui le convenzioni delle storie e delle Storia vengono ridiscusse (mettendo per esempio l’esperienza afroamericana al cuore delle origini di Hollywood).

PRIVO dell’ottimismo del padre, OJ e la più estroversa sorella Emerald (Keke Palmer) sono costretti a iniziare a vendere i loro cavalli a un vicino (Steven Yeun) che gestisce un piccolo parco a tema a sfondo western, e che scopriamo essere il bambino protagonista della sitcom con lo scimpanzè assassino. Quando, nel cielo sopra il ranch, appare un misterioso, enorme, oggetto volante il cui passaggio è anticipato da improvvisi blackout elettrici e accompagnato da quelli che sembrano nitriti di cavalli lontani (il suono è uno dei piaceri del film), OJ e Emerald si mettono in testa di filmarlo, con l’aiuto di un commesso di elettronica di nome Angel – per poi arricchirsi con le immagini esclusive di un vero Ufo.
Al contrario dell’astronave di Incontri ravvicinati che atterrava melodicamente e invitava i terrestri ad entrare nella sua pancia, l’Et di Peele ha un più minaccioso e devastante funzionamento ad aspirapolvere (e se qualcosa non gli piace poi la sputa -come la moneta assassina.). In breve, assedia il ranch dove OJ e Emerald hanno piazzato telecamere di sorveglianza ovunque per, a loro volta, «catturarlo». Ma, quando si tratta dell’«inquadratura impossibile», non c’è digitale che tenga. E al ranch arriva anche un leggendario direttore della fotografia, con cinepresa a manovella.