«Rinascimento perduto»: così è stata definita qualche anno fa la produzione letteraria dell’Umanesimo in lingua latina. E un po’ perduto lo è davvero, se pensiamo che il più grande poeta latino dell’epoca, Petrarca, è passato alla storia per essere invece il padre della lirica d’amore in volgare con il Canzoniere (che lui chiamava però col titolo latino di Rerum vulgarium fragmenta). L’edizione con testo latino a fronte de I Dialoghi, La fortuna (De fortuna) e La conversazione (De sermone) di Giovanni Pontano, curata da Francesco Tateo (Bompiani «Classici della Letteratura europea», pp. XCVIII-1645, euro 45,00) permette di ritrovare un protagonista di questo Rinascimento perduto.
Da un lato questo libro è certamente un punto d’arrivo – quella di Tateo a Pontano è una fedeltà lunga più di sessant’anni. Ma è anche un punto di partenza per studiare questa figura, che non fu solo uno straordinario scrittore latino. Ce lo testimonia, ad esempio, la selezione delle sue lettere – solo quelle a firma esclusiva delle 1500 a lui riconducibili – curata, sempre in questo volume, da Anna Gioia Cantore.
Pontano è legato, nell’immaginario di chi ancora studia la letteratura umanistica in latino, a Napoli, sfondo incantato di molte delle opere curate e qui tradotte. Pontano però non era di Napoli, ma di Cerreto, un villaggio famoso per aver dato i natali anche a una genìa di persone che «per le piazze spacciano unguenti, o altre medicine, cavano i denti o fanno giochi di mano che oggi più comunemente dicesi Ciarlatani, da Cerreto, paese dell’Umbria da cui soleva in antico venir siffatta gente» (vedi alla voce «ciarlatano» del primo Vocabolario della Crusca).

Vita attiva e contemplativa
Come i suoi concittadini, anche Gioviano – come recita il nome all’antica che si diede – non rimase molto nel suo paese, ma andò guadagnandosi il pane all’estero. Non lo fece però vivendo di espedienti, ma al contrario praticando quello studio delle humanae litterae dal quale – e non da una riscoperta della dignità dell’uomo contro un Medioevo teocentrico – ha preso il nome il fenomeno culturale che chiamiamo Umanesimo. Il caso di Pontano mostra bene come l’Umanesimo non fu solo la riscoperta di un modo di parlare e soprattutto di scrivere forbito in quanto ripreso dai modelli greci e latini. Quella bella retorica serviva infatti spesso a scopi politici. Soprattutto, gli umanisti stessi non erano intellettuali estranei alla vita politica, ma attori in prima persona dei negozi del loro tempo, sia che fossero impegnati in prima persona nelle magistrature cittadine, sia – è il caso di Pontano – che fossero al servizio di monarchi come gli Aragonesi di Napoli.
Questo intreccio tra vita attiva e contemplativa mise in primo piano per molti la riflessione su un problema centrale: fare politica per gli intellettuali ha sempre voluto dire imparare a ingoiare rospi, facendo ampio uso delle arti della simulazione e della dissimulazione. Anche Pontano riflettè a fondo su questo aspetto e lo fece con spunti che sarebbero tornati di bruciante attualità qualche decennio dopo, quando la divisione religiosa dell’Europa mise in primo piano la necessità di adeguare i comportamenti esteriori a una fede che dentro il cuore non si sentiva più come propria. Diversamente da altri suoi contemporanei, Pontano pensava che potessero darsi degli spazi in cui la finzione potesse diventare dissimulazione onesta, per riprendere il titolo dell’opera seicentesca di Torquato Accetto. Questi spazi ce li si poteva ritagliare sia nei discorsi – così nel De sermone, il dialogo dedicato all’arte della conversazione – sia quando dalle parole si passava ai fatti, come nel De prudentia (1498), dedicato alla virtù regolatrice dei comportamenti umani.
Tra le altre cose che colpiscono di Pontano, pur all’interno della vivacità del panorama culturale del suo tempo, c’è la tenerezza che riversa in una dozzina di dolcissime Neniae composte per la nascita del figlio Lucio e poi confluite nel De amore coniugali, la raccolta di elegie in cui cantò l’amore per la moglie Adriana Sassone. In un’età in cui l’altissima mortalità infantile imponeva ai padri di non affezionarsi troppo a figli che potevano essere strappati loro da un momento all’altro – Montaigne (Montaigne!) ne perse «due o tre, se non senza rimpianto, almeno senza dolore» – questo affetto verso un figlio neonato potrebbe comunque sembrare l’evasione affettuosa di un serioso umanista tutto dedito alla speculazione e alla politica. Dall’esperienza della paternità Pontano aveva invece imparato a guardare il mondo con gli occhi del figlio bambino: «Ricordo che mio figlio Lucietto, di quattro anni appena, riposando in grembo alla balia, vide attraverso la finestra, mentre il sole risplendeva, cader dal cielo all’improvviso una pioggia con gocce più grandi del solito, che, illuminate dal sole, luccicavano meravigliosamente, e rimase per qualche momento incantato di fronte a uno spettacolo così grande, poi subito, rivolgendosi a me disse: “non è forse, o tata, Dio che sta lì?”» (p. 677).
Certo, i figli per lui furono importanti, ma i suoi veri eredi furono i suoi scritti. «Pontani liberi sunt libri»: i figli di Pontano sono i suoi libri, come commentò in morte un altro grande umanista meridionale, il Galateo. Da questi libri non viene fuori un pensatore particolarmente originale per i nostri canoni. Ma chi lo potrebbe essere, in un’età in cui l’imitazione degli antichi era il valore più importante e in cui, per fare solo un esempio, l’unica opera impegnativa in prosa di un pensatore che a noi oggi sembra un genio piovuto da un altro pianeta, l’Arte della guerra di Machiavelli, è una riscrittura di un compendio di arte militare tardo-antico, l’Epitoma rei militaris di Vegezio? Eppure, proprio perché l’importanza era trattare i temi eterni e classici in una veste retorica efficace, l’eleganza del suo latino così duttile e plastico e la sua capacità di creare uno stile prensile e capace di toccare argomenti tanto disparati da una pluralità di punti di vista ne fa uno dei rappresentanti migliori e più originali (nel senso detto sopra) della scrittura umanistica.

Luciano, Macrobio e Gellio
Maestro riconosciuto Pontano fu soprattutto nella scrittura di dialoghi. Partendo dal modello platonico ereditato da Cicerone, sottopose il genere a una forte torsione sperimentale, debitrice in questo tanto dei dialoghi di Luciano di Samosata quanto delle discussioni affidate da Macrobio e da Aulo Gellio ai Saturnalia e alle Noctes Atticae. Oltre alle forme, a subire una torsione furono, di conseguenza, anche i contenuti. L’uso spregiudicato delle potenzialità insite nel genere del dialogo trovò un campo di applicazione nella critica di quella superstizione di cui i suoi concittadini cerretani avevano fatto il loro core business. Pontano andò a colpire non solo le pratiche degenerate della religione popolare – questo era un tema abbastanza comune tra gli umanisti – ma insinuò nei suoi lettori dei dubbi nei confronti dei dogmi stessi del Cristianesimo.
«Recentemente – a parlare è Caronte nel dialogo omonimo – un tipetto superstizioso, poiché gli chiedevo se portasse dalla terra qualche nuova, mi disse che più di un morto era resuscitato; perciò desidero ardentemente sapere da voi, che tenete il conto di tutte le anime, se alcune di loro sono sfuggite, o vi sono state sottratte di nascosto; io so di certo di non averne mai riportata una indietro». La risposta dell’interlocutore Eaco non dissipava l’ironia corrosiva della domanda, ma la spostava su un altro piano: «Queste cose non vanno riprovate perché incrementano la religione» (p. 27).
E allora, se le cose stanno così, non ci sorprende che alcuni studiosi abbiano pensato che tra i lettori di Pontano ci sia forse stato appunto Machiavelli. Anche lui era infatti convinto che alcune religioni (non tutte: non il cristianesimo, per dirne una), per quanto false, potessero essere comunque utili per aumentare la coesione sociale, posizione che non andrà confusa con un volgare ateismo devoto da religione come instrumentum regni. Il debito di Machiavelli nei confronti di Pontano è un problema tanto affascinante quanto ancora aperto. Quest’edizione permetterà forse di rispondere anche a questa domanda, tra le tante che le opere di Pontano ancora ci pongono.