Un colore compatto, che allude al buio canonico e oggi decisamente impensabile della vecchia sala cinematografica, quella che appunto fu detta il cubo nero, scandisce il percorso della mostra C’era una volta Sergio Leone (fino al 3 maggio, info: tel. 060608, www.arapacis.it) allestita a cura della Cineteca di Bologna e della Cinemathèque parigina negli spazi lineari, essenziali, al piano terra del Museo dell’Ara Pacis. Quel nero ospita, secondo un ritmo cronologico, sia i reperti materiali di un autentico sciamano della tecnica cinematografica sia le sequenze in loop di una filmografia d’autore (appena sette pellicole firmate in poco più di vent’anni, da Il colosso di Rodi, 1961, a C’era una volta in America, ’84) che finalmente oggi appare, nonostante i longevi pregiudizi della critica, per quello che davvero è, una presenza cruciale per due generazioni di cineasti e nel frattempo un artista inimitabile come paradossalmente testimoniano proprio i reiterati, espliciti omaggi (è l’ultima sala a proporne un campionario) di autori dispari fra loro ma tutti quanti leoniani onorari, da John Carpenter a Joe Dante, da John Landis a Bernardo Bertolucci (il quale, giovanissimo, cooperò al soggetto di C’era una volta il West, ’68) a parte, persino ovviamente, Quentin Tarantino.
L’incipit della mostra, concernente un lungo antefatto giovanile e formativo, è d’ordine strettamente documentario e rimanda a un severo apprendistato artigianale cui cooperano prima i genitori (il padre Vincenzo Leone, alias Roberto Roberti, era un buon regista del muto, la madre, Edvige Valcarenghi, una attrice di un certo talento), poi, tra gli anni quaranta e cinquanta, i registi italiani di prima e di seconda fila cui presta il suo aiuto e da cui impara il mestiere, da Bonnard e Soldati a Gallone, Camerini e Blasetti, mostrando una attitudine già spiccata per la direzione degli attori (da puro metteur en scène egli fu tra i massimi del suo tempo) e per le grandi scene di massa come testimonia la sua guida della seconda unità di ripresa nella celebre sequenza della corsa delle bighe nel Ben Hur (’59) di William Wyler. Per reperti più nudamente materiali si sviluppa viceversa la zona centrale della mostra dove si accampano, dopo l’esordio nel peplum del Colosso, la Trilogia del dollaro e i due superbi esiti dell’epica western più autunnale, C’era una volta il West e poi Giù la testa (’71), un film che Leone gira per necessità ma sa trasformare in un apologo lucidamente, disperatamente, politico proprio mentre vede principiare intorno a sé il decennio antagonista.
Qui si tratta di grammatica e di morfologia leoniane, laddove sono esposte con ordine le fonti letterarie e figurative del suo cinema: c’è la copia vetusta e annotata del Martin Eden di London (uno dei testi di avvio dell’ultimo film, che infatti lo cita espressamente), i libri di Hemingway e Dos Passos, gli albi a fumetti di Kit Carson, ma ci sono anche i Capricci-Disastri della guerra di Goya, di cui Leone fu un collezionista, e diversi richiami comparativi tra fotogrammi e opere pittoriche, per esempio di Degas, di Hopper e del misterioso, tuttora malnoto da noi, Viktor Riis. E poi una selezione di reperti che provengono direttamente dai set, come il poncho del «Monco» Clint Eastwood, la marsina di De Niro/«Noodles» e altri oggetti singolari a partire dalle armi utilizzate per il ciclo western.
Potrebbe sembrare, questa, una aperta concessione al feticismo degli appassionati (il regista romano, va sempre ricordato, ebbe un suo pubblico-pubblico ben prima che si degnassero i cinefili) ma in realtà si tratta di un feticismo necessario alla filologia e lo provano alcune presenze organiche alla mostra stessa, quella del musicista Ennio Morricone (mentre lungo il percorso aleggia in assolo la tromba di Michele Lacerenza, dal finale di Per un pugno di dollari, ’64), di un grande direttore della fotografia quale Tonino Delli Colli, infine quella del relativamente meno noto Carlo Simi (1924-2000), straordinaria figura di architetto/scenografo/costumista che collabora con il maestro dalla metà degli anni sessanta fino all’ultimo capolavoro e infatti la mostra annovera l’ingente materiale preparatorio per la ricostruzione, così fededegna da simulare l’inganno ottico, del Lover East Side primo Novecento.
Ulteriore acquisizione della mostra è il repertorio degli scatti leoniani, ora provenienti da uno specifico fondo della Cineteca bolognese, a firma di Angelo Novi (1930-1997) fedelissimo fotografo di scena in grado di focalizzare il regista in quanto mago o demiurgo sul set e però contemporaneamente di valorizzare le figure degli attori (lo sguardo impassibile di Charles Bronson e il ghigno allucinato di Volonté, l’irruenza di Rod Steiger e il riso sardonico di De Niro) o, molto più raramente, delle attrici come Claudia Cardinale, la fiera, indimenticabile cocotte protagonista di C’era una volta il West.
Molto più che un regesto puntuale dei reperti e dei documenti è il catalogo, in realtà una ricca monografia, La rivoluzione Sergio Leone (Cineteca di Bologna, pp. 312, € 27,00), a cura di due specialisti, Gian Luca Farinelli e Christopher Frayling cui si deve tra l’altro la monumentale biografia Sergio Leone. Danzando con la morte (Il Castoro 2002). Il volume, dotato di una notevole iconografia dove abbondano necessariamente le foto di Novi, è diviso grosso modo in tre sezioni: nella prima compaiono i contributi dei curatori, unitamente a un lessico leoniano di Emiliano Morreale, mentre nella seconda sono inclusi gli scritti, le dichiarazioni di poetica e le interviste, con qualche bel recupero come la lunga conversazione con Frayling, del 1982, in cui Leone ribadisce per l’ennesima volta che oggetto del suo cinema non è direttamente la realtà ma il mito che aleggia su di essa: «Sono film per adulti e hanno l’impatto delle favole. Il cinema per me vuol dire l’immaginario e l’immaginario si comunica meglio sotto forma di parabola, cioè di favola. Ma non nel senso di Walt Disney. Le sue attraevano in quanto favole interamente inventate, pulite e zuccherose, il che rende le favole meno suggestive. Secondo me le favole catturano l’immaginario del pubblico quando sono ambientate nella realtà anziché nella fantasia. La fusione tra ambienti realistici e storie fantastiche può dare al film un senso mitico, leggendario. C’era una volta…». Nell’ultima parte, unitamente alla filmografia analitica, trovano posto le testimonianze di compagni di via, colleghi, attori, allievi, comunque concordi circa il fatto che Sergio Leone se da un lato rigetta in quanto tale il film di genere, a partire dal western, dall’altro però lo re-inventa secondo un codice molto rigoroso, che è soltanto suo.
È probante, in tal senso, quanto afferma Martin Scorsese, suo grande estimatore e amico ma tutt’altro che un leoniano della prima ora, quando ammette la sua lunga sensazione di perplessità, di più o meno sottaciuta ostilità, prima di riuscire a cogliere la Stimmung di western così poco americani e per niente canonici: «Era un film italiano, più in linea con la tradizione italiana, quella operistica (…) e in un certo senso Leone ha portato al western la Commedia dell’Arte e l’Opera lirica». Anche per questo sarebbe ora di punire, e non sono pochi dopo tutto, coloro che continuano a parlare come niente fosse di spaghetti-western.