Nel corso dei secoli il dialogo aperto dall’incontro coi reperti antichi non è mai stato pacifico. L’irruzione del passato nel presente ha suscitato spesso reazioni contrastanti. James Joyce, ad esempio, non ne è certo entusiasta quando un giorno del 1906, povero in bolletta e dopo una passeggiata attraverso i Fori Imperiali, scrive al fratello Stanislaus che Roma gli fa «pensare a un uomo che si mantiene mostrando ai viaggiatori il cadavere della nonna».
Il dissacrante rapporto con le rovine era di certo dettato dal caotico commercio dell’indolente Urbe. Ma se facciamo un passo indietro di più di due secoli, all’epoca dei Grand Tour, e ci spostiamo alle falde del Vesuvio nell’ancora vergine e da poco dissepolta città di Pompei – il cui lungo sonno sotto la coperta di lapilli è durato dal fatidico 79 d.C. al 1748, quando dopo i sistematici scavi rivedono la luce i primi importanti reperti –, la straniante impressione di mummificazione che ne riceve Goethe gli fa esclamare che poche sciagure al mondo «hanno procurato altrettanta gioia alla posterità».
È l’epoca in cui Kant teorizza il Sublime come sentimento misto di terrore e piacere davanti all’incommensurabile. Poi, nel volgere di qualche decennio, sarà Leopardi a contemplare quegli stessi ruderi nel canto La Ginestra, e a riflettere la misera pretesa delle magnifiche sorti umane contro la micidiale potenza della Natura, dello sterminator Vesevo. E di certo il poeta di Recanati non poteva immaginare il grado di devastazione attuale nella conurbazione vesuviana al punto da commutare l’area archeologica da simbolo di distruzione a oasi di pace. Una pace a ogni buon conto attiva, fatta di un continuo lavorìo che dall’anno dei crolli 2010 a oggi cerca un nuovo assetto e una nuova prospettiva ai reperti che tutela e promuove.
È sicuramente in questa direzione che si muove la mostra in corso al museo d’arte contemporanea Madre, Pompei@Madre. Materia Archeologica, che nasce dalle sinergie curatoriali del direttore del museo ospitante Andrea Viliani per la sezione d’arte contemporanea, del direttore del Parco Archeologico di Pompei Massimo Osanna per l’arte antica, e di Luigi Gallo per l’arte moderna. Mostra che, ponendo i reperti archeologici in relazione con le opere della collezione permanente al primo piano (fino al 24 settembre), e con opere moderne e contemporanee al terzo piano (fino al 2 maggio), tenta di cucire, attraverso multiple dialettiche relazionali, forse un impossibile dialogo tra il nostro e il mondo antico. Dialettiche basate comunque sull’estraneità di mondi diversi tra loro pur nella prossimità dei reperti stessi che ci interpellano.
Le opere site-specific della collezione permanente del Madre sono allestite in una prospettiva di domus contemporanea. Essa accoglie i reperti in un percorso che si vuole circolare e che lavora talvolta con effetti associativi insieme immediati e conflittivi, come i popolari frammenti di iscrizioni parietali dipinte e graffite del I secolo d.C. raffrontati all’epigrafe raffinata e allo stile calligrafico di Domenico Bianchi; oppure troppo didascalici nell’esibire il tema del mare, del viaggio, come nel caso del grande telaio in ferro con àncora di Jannis Kounellis interfacciato all’essenziale mosaico incorniciato da onde, raffigurante un’àncora al centro di due nuotatori e due delfini. Talvolta poi le associazioni offrono stridenti opposizioni come gli enormi blocchi di Richard Serra (Giuditta e Oloferne) che si offrono come grezzi monoliti nello spazio a fronte della grazia aggettante del piccolo efebo che regge nella mano una lucerna.
Gli elementi archeologici inseriti nei vari contesti artistici fungono perlopiù per il loro valore simbolico ed evocativo dei luoghi cui originariamente erano destinati, che divengono il tema delle sale. Così le brocche, il candelabro, il letto per banchetto e lo scaldavivande in bronzo formano un tablinum-triclinium-convivium con la sala interamente affrescata da Francesco Clemente (Ave Ovo) sul filo della memoria simbolica – personale e collettiva – di Napoli. In molti casi gli elementi archeologici sembrano richiamare poetiche, temi, materiali e prassi degli artisti come per Mimmo Paladino, Luciano Fabro, Anish Kapoor, Sol LeWitt, mostrando come questa pratica espositiva tradisca talvolta un’attitudine duchampiana del curatore che muta il contesto del reperto-readymade per risemantizzarlo in chiave estetica.
Ma non è questa in fondo l’unica direzione data alla mostra. La dialettica tra arte contemporanea e frammento antico è a volte così serrata da far apparire questo il memento mori dell’altra. E allora anche l’arte contemporanea diviene frammento, documento parziale o ingranaggio di una macchina del tempo composita che sola testimonia l’inattingibilità del tutto. La dimostrazione più palese di ciò è data dalla mostra al terzo piano, dove il non dover scendere a patti con una collezione permanente libera i criteri di associazione i quali, al di là di qualche ingorgo, dispiegano più fluidamente le molteplici direzioni di senso e le stratificazioni che dal 79 d.C. a oggi Pompei può esprimere.
Tra giornali di scavo di più di due secoli fa e il primo diario-regesto che documenta il bombardamento del 1943, circondati dagli strumenti di lavoro di scavo di archeologi, e una cartografia dell’area archeologica del 1910, compaiono, implausibili ma vere, le opere di Adrian Villar Rojas che, con i suoi assemblaggi di organico e inorganico, fanno pensare a reperti di altre epoche. E se le Vues pittoresques de Pompéi (1818-’19) di Jakob Wilhelm Hüber (primo maestro di Giacinto Gigante) danno il senso delle litografie di scorcio sui ruderi diffuse in Europa nell’Ottocento, Roman Ondàk inserisce il proprio ritratto in stampe d’epoca, quale impossibile testimone delle pittoresche vedute delle eruzioni vesuviane. Eruzioni che non hanno mai smesso di suscitare impressioni di forza esplosiva, come ne L’Eruption du Vésuve (1814) di Pierre-Henri de Valenciennes e nel Vesuvius (1985) di Andy Warhol. E se gli schizzi del giovane Le Corbusier donano un’esperienza perspicua di lente modernista con cui guardare le domus pompeiane, il Pompei Gourmet Kitchen Glut (1987) di Robert Rauschemberg si attesta come vero e proprio reperto dell’antico-contemporaneo.
Per il resto, il senso di ciò che rimane dopo la sciagura anche per un possibile nutrimento del presente si condensa bene nella serie fotografica in bianco e nero dei crani/pani di Antonio Biasiucci.