Lo storico polacco-francese Krzysztof Pomian

 

Benché ormai di uso comune, il concetto di museo è relativamente giovane e ha trovato piena esplicitazione soltanto nel corso degli ultimi due secoli. Superfluo quanto indispensabile, il museo ha conosciuto in anni recenti un’enorme diffusione, con un incremento esponenziale nel numero di edifici e siti dedicati. Straripante è oggi la bibliografia sul tema, esiguo però il novero dei libri irrinunciabili; a questi va di certo aggiunto Le Musée, une histoire mondiale, la nuova, ambiziosa creatura di Krzysztof Pomian (1934), storico e filosofo polacco di origini francesi. Pomian ha voluto raccontare il museo, «luogo bizzarro», dalle origini fino all’affermazione su scala planetaria, dando conto delle implicazioni politiche, sociali e culturali; pertanto la storia del museo diventa anche e soprattutto la storia degli individui, dei gruppi e delle società che hanno reso l’istituzione museale una componente essenziale della civiltà odierna. Di questo studio, suddiviso per ragioni editoriali in tre parti, è da poco uscito il primo volume: Du trésor au musée (Gallimard, pp. 704, illustrato, euro 35,00), mentre a giorni è atteso il secondo, L’ancrage européen, 1789-1850, che avremo premura di recensire insieme al terzo e ultimo.
Dopo una gestazione trentennale e malgrado la congerie di informazioni e digressioni, si tratta di uno scritto armonico e scorrevole, nel quale Pomian condensa tesi già proposte in oltre cento testi sull’argomento, specie in L’ordine del tempo (1984), Collezionisti, amatori e curiosi: Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo (1987) e Dalle sacre reliquie all’arte moderna: Venezia-Chicago dal XIII al XX secolo (2003) – tutti tradotti in italiano, il primo da Einaudi, gli altri due da Il Saggiatore.
Secondo l’autore, il successo dell’istituzione museale si deve a una serie di fattori concomitanti legati allo sviluppo dell’Europa moderna a partire dal XV secolo. Sul piano antropologico il museo sorge come variante particolare della «collezione»: la pratica dell’accumulare insiemi di oggetti, naturali o artificiali, estraendoli da un circuito di attività utilitaristiche per sottoporli a tutela ed esibirli allo sguardo di un pubblico più o meno limitato in un luogo appositamente destinato. Tale pratica è in effetti ancestrale e universale, perché le società umane stabiliscono da sempre uno «scambio tra l’invisibile e il visibile», di cui la collezione è a un tempo «segno, strumento e prodotto». Di conseguenza il contenuto della collezione, come pure i relativi criteri di selezione, conservazione, catalogazione ed esposizione, nonché le competenze e gli obblighi di chi se ne prende cura, può variare in funzione delle credenze socialmente condivise e storicamente determinate circa il volubile rapporto dell’uomo con «l’invisibile» – ossia con qualunque cosa che in quanto reale ma inaccessibile ai sensi è materia di una «croyance».
Pomian individua l’antesignano del museo nel «tesoro», di cui sono esempi gli arredi e corredi delle antiche tombe regali egizie o cinesi, dei templi ellenistici e delle sontuose dimore patrizie romane. Il tesoro, il cui valore era strettamente proporzionato al pregio dei materiali che lo costituivano o dei reliquiari che lo contenevano, è elemento comune a ogni cultura dove il potere ha avuto carattere sacro. Dal tesoro deriva quindi la «collezione privata», a lungo privilegio dell’aristocrazia o dell’alto clero, contraddistinta da uno speciale legame affettivo tra il collezionista e gli oggetti raccolti. In termini cronologici dunque il museo non è che il «penultimo anello» nella millenaria vicenda delle collezioni private, di cui avrebbe ribaltato in senso egalitario l’originaria valenza simbolica: da rappresentazione di un potere immortale, personale o di casta, a bene pubblico accessibile a chiunque, senza distinzioni di classe.
Secondo l’autore, il primo museo – sebbene allora non venisse definito tale – nacque a Roma sotto il pontificato di Sisto VI, quando un gruppo di statue antiche già custodito in Laterano venne traslato in Campidoglio, il 15 dicembre 1471. Da allora e per circa duecento anni il museo è rimasto una questione culturale tutta italiana, e grazie al lavoro di eruditi come Paolo Giovio ha gradualmente affinato il proprio significato differenziandosi da altre forme collezionistiche come gli studioli o i gabinetti di mirabilia. In seguito, tra il XVI e il XVII secolo, il museo ha valicato le Alpi, propagandosi dapprima nell’occidente cristiano erede della cultura latina e poi nel resto d’Europa. In questo progresso ha inciso in maniera determinante all’estero come in Italia la comparsa degli orti botanici e delle raccolte di scienze naturali.
Pomian ripercorre così la genesi dei Musei Vaticani, degli Uffizi, del Fridericianum di Kassel, ecc., per arrestarsi infine alla vigilia della Rivoluzione francese, vale a dire subito prima della vasta campagna di confische e sequestri di beni artistici che ha portato all’apertura del museo nel Palazzo del Louvre – soggetto del prossimo volume, assieme agli eventi del periodo napoleonico e agli sviluppi della Restaurazione. Strada facendo, l’autore osserva che condizioni necessarie alla proliferazione dei musei sono state la pace, la stabilità politica e un’economia in grado di produrre un surplus sufficiente a finanziare le arti. Non a caso, sostiene Pomian, la Guerra dei Trent’anni avrebbe ritardato la diffusione nell’Europa settentrionale del modello proto-museale italiano. D’altro canto è evidente che le guerre, attraverso saccheggi e dispersioni di grandi patrimoni, abbiano in più circostanze favorito la formazione di nuclei collezionistici tuttora importanti.
A fronte di una mole diligentemente composta di notizie storiche, è tuttavia l’analisi delle idee a rendere interessante il saggio. L’autore stesso ammette che il suo imponente trittico «non è del tutto estraneo» alle convinzioni politiche sottese alla propria carriera scientifica. Pomian spiega che il museo appare quando la religione perde la sua forza di persuasione collettiva a favore delle ideologie e decadono i vecchi divieti che vincolano i costumi. Il museo infatti è un luogo secolare che sopprimendo l’aura mistica degli oggetti li sottrae al culto religioso ma li consacra in chiave laica, convertendoli in opere da ammirare. Contano solo le qualità artistiche, estetiche o testimoniali.
E ancora. Il museo è un’istituzione emblematica del processo di modernizzazione del mondo e delle resistenze che questo stesso processo inevitabilmente incontra. In altre parole, dato che in ogni società «futurocentrica», cioè moderna, si generano di continuo fratture a più livelli – filosofico, economico, tecnologico, etico, ecc. –, il museo garantisce la coesione sociale tramite un’azione mai definitiva di raccordo tra passato e presente finalizzata alla trasmissione della memoria a una posterità indefinitamente distante. Orientato verso l’avvenire, affacciato sul presente. Ma il compito, distintivo e fondante, di difendere la memoria collettiva dall’erosione dei tempi e dalla malizia degli uomini non si concilia automaticamente con l’altrettanto inderogabile impegno a mostrare ogni oggetto raccolto. Di qui gli annosi dilemmi che ben conoscono gli esperti del settore.
Al di là dei problemi legali e gestionali, e prima dei troppo spesso stucchevoli dibattiti su allestimenti, illuminazione o restauro, esporre opere d’arte significa inserirle in un ordine concettuale concretato da uno spazio architettonico, ovvero iscriverle nell’ideologia che presiede alla creazione e alla vita del dispositivo museale. Così è stato fin dalla collocazione delle statue romane in Campidoglio.