E’ il 1903. A Roma – terra benedetta da cui riappaiono come prodigi i germogli spezzati dell’antichità – un uomo attraversa a piedi il centro storico fino al Vaticano, portando in spalla un braccio di marmo. Aveva comprato quel frammento «per preservarlo da una sicura rovina» nella bottega di uno scalpellino in Via Labicana, a qualche centinaio di metri dal punto in cui nel 1506 il celeberrimo gruppo scultoreo del Laocoonte venne estratto dalla cantina di una vigna nei pressi del Colosseo, divenendo d’emblée, per volere di Giulio II, il simbolo della rinascita di Roma. Per un intero anno, un po’ perché non sapeva che farne, un po’ perché non riusciva a separarsene, aveva conservato il cimelio a casa, nella camera da letto. «I passanti si saranno voltati verso di lui» scrive Hans von Trotha in Le ultime ore di Ludwig Pollak (Sellerio «La memoria», traduzione di Matteo Galli, pp. 192, euro 14,00), rievocando la solenne processione solitaria che portò in dono il vero braccio destro del Laocoonte ai curatori dei Musei Vaticani. L’episodio del rinvenimento è noto ma von Trotha, pur attingendo dall’archivio di Pollak conservato al Museo Barracco si serve della letteratura per immaginare il momento in cui l’infallibile sguardo dell’archeologo, collezionista e mercante di Praga riconobbe nel «bicipite ben sviluppato» un rigonfiamento appartenente con certezza a «un frammento del serpente apportatore di morte, che scivola lungo il braccio tutto liscio».
Il braccio di Pollak aprì una breccia nella «quieta grandezza» di Winckelmann che, con Goethe, aveva proiettato nell’opera descritta da Plinio come il capolavoro degli scultori di Rodi Agesandros, Athanodoros e Polydoros, i propri desideri. Per von Trotha l’acquisto provvidenziale di quell’arto flesso, che stravolse l’idea della morte eroica del sacerdote troiano col braccio teso verso l’alto veicolata dai restauri rinascimentali, fu anche un’infausta premonizione. Su questa metaforica e intima visione del fatale destino di Laocoonte/ Pollak l’autore, con una scrittura sobria e sincopata eppure intrisa di pathos, costruisce il romanzo. La storia risuona sommessamente in un edificio nei pressi del Campo Santo Teutonico, dove nel tardo pomeriggio del 16 ottobre 1943 si reca K., un ex insegnante di liceo di Berlino finito nella Roma occupata e stabilitosi in Vaticano, per incontrare un prelato in pensione, un tempo nel corpo diplomatico del papa. Nella semioscurità, seduto dietro a una Remington dalle lettere sfaldate, K. – teso e stanco – non vuole scrivere. Preferisce raccontare, come in una confessione che libera dal dolore, le memorie di cui è diventato depositario: «Rendere testimonianza. Pollak non faceva che ripeterlo». La trama del libro si dipana tra la stanza dove s’incontrano il Monsignore e K. e un appartamento di Palazzo Odescalchi dalle cui finestre si vede la basilica dei Santi Apostoli. È lì che il prelato aveva inviato l’insegnante tedesco affinché, prima del coprifuoco del 15 ottobre, conducesse al sicuro in Vaticano Pollak, commendatore dell’Ordine pontificio di San Gregorio, e la sua famiglia. Il dialogo tra K. e il Monsignore e quello tra K. e il collezionista, che è diventato calvo e non porta più la barba ma solo i baffetti, si svolgono alternativamente, in un crescendo di suspense che non si rivela meno angosciante per chi già conosce l’esito della vicenda.
Nato nel 1868 nel ghetto di Praga da una famiglia di commercianti, compagno di scuola di Mahler, Ludwig compì studi di archeologia e arte a Vienna, per poi trasferirsi stabilmente a Roma nel 1893 attratto – come molti studiosi e artisti dell’epoca – dal fascino delle rovine e dalla stupefacente bellezza dei ritrovamenti che si susseguivano, con grande eco in Europa, nel ventre della capitale. Lo studio dei diari di Pollak consente a von Trotha, storico di formazione e specialista dell’arte dei giardini, di ripercorrere fedelmente la vita professionale dello scopritore del braccio di Laocoonte, durante mezzo secolo punto di riferimento per diplomatici e collezionisti giunti da tutto il mondo. Nel romanzo vengono ricordati in particolare il rapporto con J.-P. Morgan, il «re dei dollari», che raggiungeva Roma in primavera di ritorno dall’Egitto e l’amicizia con l’ambasciatore russo Alexander Nelidow, arrivato in Italia a fine Ottocento con una valigia piena di tesori. Quest’ultimo incaricò Pollak di mettere ordine nella sua collezione ed egli, che fece dei cataloghi il suo mestiere, la trasformò in un’opera d’arte. Il catalogo – fa dire von Trotha a K. – «è la sua forma, il suo modo di lasciare qualcosa alla posterità».
Accanto alla finestra, unico locus amoenus del romanzo, Ludwig racconta il viaggio in Oriente in cerca di confronti per i gioielli di Nelidow: le piramidi di Giza, Karnak, Edfu, Assuan, Menfi, la Palestina, Haifa, Beirut, Damasco e, nel 1900, Costantinopoli. Quest’esperienza confluì in una pubblicazione di lusso, grazie alla quale Pollak divenne membro onorario dell’Istituto Archeologico Germanico. L’imperatore di Vienna lo insignì del titolo di consigliere mentre lo zar gli conferì l’Ordine di San Stanislao. Dopo il 1915, il disprezzo e l’oblio si abbatterono sul mercante ebreo con la stessa forza impetuosa dei successi che fino a quel momento avevano costellato la sua esistenza. I ricordi disposti con zelo nella libreria – un prezioso Baedeker che mostra una Roma perduta, una haggada del XIV secolo, una riproduzione de Il ritrovamento del Laocoonte di Hubert Robert –, esibiti da Pollak a K. come reliquie, scandiscono l’ultima parte della narrazione, allontanando di pagina in pagina lo spettro delle SS e alimentando le speranze dell’emissario del Vaticano. Come divulgato da Gudrun Sailer, per iniziativa della Bibliotheca Hertziana, quattro pietre d’inciampo commemorano dallo scorso gennaio Pollak e i suoi familiari davanti a Palazzo Odescalchi. Nel 1943, neppure l’intervento di Bartolomeo Nogara presso le autorità germaniche riuscì a salvare dalla morsa di Auschwitz colui che, come il figlio di Antenore, si arrese – tra mostruose sofferenze – all’ineluttabilità del Male.