Notizia confortante è che lo sforzo compiuto dalla Fondazione Genius Bononiae su spinta del suo presidente Fabio Roversi Monaco, riportando a Bologna il disperso insieme di dipinti già uniti a decorare l’imponente Polittico Griffoni in San Petronio, non sia stato vanificato dall’emergenza Covid. L’esposizione infatti, che avrebbe dovuto aprirsi al pubblico il 12 marzo, è di nuovo accessibile e – grazie alla generosità dei prestatori, italiani e internazionali – si potrà visitarla fino al gennaio 2021, lasciando agio di godere del colpo d’occhio offerto dalle opere provenienti da musei prestigiosi come i Vaticani, la National Gallery di Londra, la Pinacoteca di Brera, il Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, la Fondazione Giorgio Cini, la National Gallery of Art di Washington, assieme alla più prossima Pinacoteca Nazionale di Ferrara e alla Fondazione Paolo VI di Gazzada.
Di fronte allo scampato pericolo, non si arriva nemmeno troppo a rammaricarsi del fatto che proprio il lockdown abbia impedito al Louvre di inviare i frammenti conservati nelle sue collezioni e già inseriti nel polittico, una Santa Apollonia e un San Michele Arcangelo: il sobrio allestimento soddisfa comunque l’acribia analitica del conoscitore, pur nell’assenza di due pezzi del puzzle, venendo a un tempo incontro alla curiosità informativa dell’amatore, intenzionato a studiare il monumento perduto di una delle stagioni più felici della capitale felsinea, quella della signoria dei Bentivoglio e del lavorio indefesso attorno al civico cantiere della basilica in Piazza Maggiore.
Il percorso si apre grazie a una serie di sale introduttive, che descrivono con dovizia di informazioni e rare fotografie di commento i precedenti formali della commessa rivolta da Floriano Griffoni, membro dell’oligarchia municipale, al pittore ferrarese Francesco del Cossa (e all’aiuto di questi Ercole de’ Roberti), per decorare la propria cappella in San Petronio intitolata a San Vincenzo Ferrer (la sesta a sinistra entrando nello spazio sconfinato della chiesa). Questi ambienti d’avvio ricollocano un simile atto mecenatesco nel contesto della grande fabbrica, sottoposta a partire dagli anni sessanta alla spinta propulsiva incitata dal legato pontificio Angelo Capranica, in carica dal 1458. Ripercorrono inoltre le complicatissime vicende collezionistiche toccate in sorte a ciascuna tavola, dopo lo smembramento della mostra negli anni venti del XVIII secolo per volontà del nuovo patrono della cappella, Pompeo Aldovrandi, soffermandosi infine, con limpida chiarezza, sulla fortuna arrisa al capolavoro nel corso del Novecento, nel sottolineare – grazie a una galleria preziosa di documenti – il ruolo svolto nella ricostruzione della sua storia da una voce autorevole come quella di Roberto Longhi (tornato più volte sul tema, fra 1930 e 1940, nel meditare la sua Officina ferrarese).
Tale oculata suddivisione delle stanze, consente di presentare adeguatamente la copia del polittico predisposta da Factum Arte, che funge da soglia all’incontro del visitatore con gli originali: l’istallazione permette di immaginare l’ordine dei pannelli nell’ingombrante struttura intagliata dal legnaiolo Agostino de’ Marchi, retribuita il 19 luglio 1473 e andata poi distrutta durante l’intervento sollecitato dall’Aldovrandi.
Proprio per questa ragione ci si può evitare il dibattito annoso sull’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità: in Palazzo Fava infatti pare del tutto legittimo l’impiego delle repliche, alla luce di comprensibili cautele conservative e senza che queste entrino in ‘competizione’ visiva con i manufatti quattrocenteschi.
Vale semmai la pena interrogarsi sulla proposta di ricomposizione che segna un ennesimo capitolo critico, seguito a quelli già firmati da Longhi, da Daniele Benati, da Mauro Lucco, da Luca Siracusano e da Cecilia Cavalca (fra i curatori dell’evento bolognese, assieme a Mauro Natale, e autrice di un volume fondamentale sull’evoluzione della pala d’altare emiliana).
A differenza di quanto sostenuto da una tanto lunga catena di opinioni, a Bologna si è deciso di scorporare dai dipinti riferibili alla commissione Griffoni la Santa Caterina e il San Girolamo della Cini, sulla base del loro diverso impianto di scala rispetto alle altre figure rappresentate nelle tavolette di solito ritenute di ornamento ai pilastri laterali.
Tale scelta non trova conferma nei pochi documenti a nostra disposizione sul pristino stato della macchina, consistenti in una relazione di Giuseppe Baraldi, datata al 21 novembre 1725, e un disegno di Stefano Orlandi, vergato nel febbraio dello stesso anno, entrambi propedeutici al frazionamento del complesso voluto dal nuovo patrono del sacello.
Nonostante che la martire abbia di fatto dimensioni maggiori di quelle, ad esempio, del Sant’Antonio di Rotterdam o del San Petronio di Ferrara, lo stile, le opzioni compositive, l’inquadramento delle due silhouette appaiono in tutto coerenti con la serie già ricostituita da Longhi nel ’40, come più volte ribadito negli apparati in mostra: al punto che, in attesa di ulteriori analisi (magari sui supporti lignei) e senza sottoscrivere l’ipotesi di scorporo, si vorrebbe piuttosto seguire il suggerimento pronunciato in catalogo dallo stesso Natale, provando a rintracciare per esse «una collocazione all’interno del polittico».
Ci sembra ad esempio che, nell’economia complessiva della cassa, sia ancora da indagare lo schema della predella, dettaglio in coincidenza del quale lo schizzo dell’Orlandi pasticcia goffamente con l’imporle ornati architettonici non confacenti alla tavola che certamente la impreziosiva, e cioè il pannello orizzontale con miracoli di San Vincenzo oggi in Vaticano.
A guardare infatti alla cornice del retablo di Marco Zoppo al Collegio di Spagna, eseguita dallo stesso De’ Marchi nel 1459 (e servita da ‘antefatto’, stando a un parere condiviso, per l’ordine del Griffoni), si può notare come lo zoccolo contenga due figurine anche sulle basi delle lesene laterali, secondo una tradizione che, in città, si vede rispettata, fra le altre, in un’opera di Michele di Matteo.
Vista la confusione del disegno settecentesco, che pure suggerisce la presenza di ‘pittura’ anche in rapporto a questi elementi terminali nel ricorso a una linea tratteggiata continua lungo tutta la pedana, si potrebbe speculare come tavolette analoghe si trovassero probabilmente anche ai lati della predella Griffoni; e si potrebbe allora almeno vagliare, fra le varie soluzioni per la Santa Caterina, una sistemazione analoga, notando – in rapporto alle misure ridotte del supporto – come i suoi contorni appaiano decurtati sulle bande e nella parte superiore (dove l’aureola risulta incompleta) indicando per essa un respiro meno angusto. Perfino lo scorcio di terreno su cui sta ritta la martire – come già notato da Longhi – impone una visione dall’alto: del resto anche lo Zoppo tiene conto di tali astuzie prospettiche nel défilé di santini al margine del suo polittico, variando i piani di appoggio e modulando l’ingombro dei corpi in relazione a un punto di vista preferenziale.
Se dunque restano aperti alcuni interrogativi circa una tappa decisiva per l’arte bolognese del Rinascimento, proprio tali domande segnalano l’importanza dell’iniziativa di Genius Bononiae, vera e propria conferma della missione ‘pubblica’ di un attore importante nel panorama culturale della città.