A proposito della vicenda della vendita di navi militari (e, in previsione, di un imponente arsenale di armi) all’Egitto sono stati usati, da uno schieramento trasversale, aggettivi come «ragionevole» (riferito all’operazione) e «matura» (riferito alla politica estera italiana). È stato anche scritto che l’etica è una cosa, la politica estera un’altra, sottintendendo che la seconda non può essere condizionata dalla prima.

Questa visione “realista” delle relazioni internazionali, che pare accomunare buona parte degli addetti ai lavori, lascia oggettivamente ai diritti umani pochissimo spazio. Questi non hanno alcuna incidenza autonoma sulle scelte: vengono richiamati solo se rafforzano, non se contraddicono le scelte determinate da altre considerazioni. E le ripetute riaffermazioni dell’impegno internazionale dell’Italia in favore dei diritti umani (e della verità per Giulio) sono sempre più vuote, e stucchevoli, nella misura in cui omettono di specificare che l’Italia, per ottenere un maggiore rispetto dei diritti umani nel mondo, non è disposta a pagare alcun prezzo.

Ciò detto, la richiesta di verità e giustizia per Giulio Regeni è anche ma non solo una questione di diritti umani, in quanto tale destinata a soccombere di fronte a una logica “realista”. È anche altro perché riguarda un cittadino italiano ucciso barbaramente in un altro Stato con il probabile coinvolgimento del suo apparato. E proteggere i propri cittadini è, da sempre, da secoli prima che la comunità internazionale accogliesse l’idea dei diritti umani uguali per tutti, un interesse nazionale. Il modo in cui uno Stato svolge questa funzione di tutela dei diritti dei propri cittadini all’estero è indice della sua credibilità internazionale (e della credibilità interna delle sue istituzioni).

Lo conferma, se mai ce ne fosse bisogno, l’impegno profuso per ottenere la liberazione di cittadini italiani presi in ostaggio all’estero e il modo in cui le istituzioni si attribuiscono, con grande sforzo di visibilità, i meriti del loro rilascio nei casi in cui, per fortuna, il rilascio avviene. La differenza sta nel fatto che gli ostaggi sono vittime di bande criminali o gruppi terroristici. Giulio Regeni è rimasto vittima invece dell’apparato statale di un «partner ineludibile», come è stato ripetutamente definito l’Egitto, di fronte al quale, nonostante la brutalità del regime che lo governa, l’Italia rinuncia facendo prevalere altri interessi. Poco importa, a quanto pare, che da quattro lunghi anni quel governo si sia burlato di noi insabbiando, ritardando, non collaborando, nonostante le promesse, i sorrisi e le strette di mano.

Poco importa che l’approccio “costruttivo” dell’Italia (ampiamente argomentato quando si è deciso di rimandare al Cairo l’ambasciatore) abbia prodotto soltanto briciole. Nella ricerca di verità e giustizia per Giulio, avrebbero dovuto esserci, fino in fondo, al fianco della famiglia e della società civile, le istituzioni dello Stato italiano. Ciò avrebbe comportato il vantaggio di schierare una forza assai più potente di quella che potevano mettere in campo privati cittadini, ong, organi di informazione.

Il coinvolgimento delle istituzioni nascondeva però un grave rischio: che la logica dei rapporti fra Stati, e di un interesse nazionale sacrificabile ad altri interessi nazionali, avrebbe potuto “inquinare” una battaglia per i diritti umani. È ciò che sta accadendo. Decidendo di fare prevalere altri interessi (al di là delle rassicurazioni di facciata di voler proseguire la battaglia per Giulio), lo Stato italiano non solo non ha contribuito a raggiungere l’obiettivo, ma paradossalmente ha indebolito la battaglia della società civile, in difficoltà di fronte a un governo egiziano ormai rassicurato del fatto che la storia di Giulio Regeni non avrà conseguenze sui suoi rapporti con l’Italia.

Se i diritti umani in fondo non contano e l’interesse nazionale a tutelare i propri cittadini è sacrificabile, c’è ancora un aspetto che merita di essere considerato. Ci sono norme statali e internazionali che il nostro governo è tenuto a rispettare le quali impongono, in controtendenza rispetto al pensiero “realista”, obblighi di tenere conto dei diritti umani e di altre questioni “etiche” nella gestione del commercio delle armi.

Se le vie politiche saranno, come sembra, presto esaurite, non è escluso – e a questo punto è auspicabile – che della questione delle vendite di armi all’Egitto si occupino i tribunali.

*Presidente di Amnesty Italia