Prima ancora di farsi leggere da cima a fondo, il nuovo libro di Claudio Magris sulle polene si presenta reader-friendly come dicono gli inglesi. Ammetto che il tema, di ispirazione nautica, è un interruttore sentimentale per chi sia nato sul mare (fidatevi di un ligure e soprattutto di un triestino della statura di Magris); ma anche chi non si è mai inoltrato in un cantiere navale e non avverte il richiamo del salmastro, potrà salgarianamente farsi trasportare dal folto immaginario cresciuto intorno alle statue lignee che un tempo ornavano le navi, «a scrutare ciò che agli altri è interdetto e fatale…». Polene Occhi del mare ha intitolato Magris il libro, edito da La nave di Teseo (un accostamento dall’involontario effetto umoristico) nella collana «i Fari» (pp. 190, € 20,00), e come per certe parole che i bambini sentono magiche, il guscio etimologico, invero un po’ opaco, difende un ricco simbolismo popolare cui in definitiva strizza l’occhio la confezione editoriale: su una sovraccoperta blu notte s’accampa, quasi levitando come il genio di Aladino, «una bella donna pienotta e arguta con vasti seni sotto la fluttuante veste bianca e il viso rivolto in alto» (parole dell’autore). Il titolo è dorato, come la corona della donna e i fregi che decorano la sua insolitamente castigata veste. Scopriremo trattarsi della polena appartenente alla nave a palo spagnola Primos, che il 24 giugno 1871 «si squarciò» al largo delle isole Scilly, Cornovaglia. E qui si innesta la ‘favola’: un marinaio italiano si era aggrappato alla polena per non annegare, riuscendo a salvarsi – unico superstite. Quando alcuni giorni dopo la ritrovò sulla battigia, non esitò a recuperarla e infine la collocò a Tresco, insieme alle altre ‘sorelle’ reduci dai frequenti naufragi che avvenivano in quel periglioso tratto di mare.
Sfogliate nel ricco apparato illustrativo – privo purtroppo dei necessari rimandi al testo di riferimento, talvolta molto distante dall’immagine citata –, le polene denunciano anche ‘sulla carta’ una prevalente modestia plastica (un cantiere navale non era l’officina di Bernini): viene la tentazione di rubare dalla faretra del giovane Umberto Eco una delle frecce storicamente più efficaci, e letali: fu lui negli anni sessanta a smascherare, passando con disinvoltura da Ian Fleming a Boldini, la grammatica compositiva e l’inganno estetico del kitsch come macchina del gusto di massa. Non so quanto sia corretto applicare la categoria del kitsch alle polene – che, è bene ricordarlo, facevano parte di un articolato sistema decorativo all’interno e all’esterno dell’imbarcazione; ma certo non si può tacere la ricerca degli effetti facili come vernici, dorature e soprattutto una policromia ‘pop’ (non è sfuggito a Magris, per esempio, l’effetto mascherone di un Bellerofonte conservato a Portsmouth, 1786, con il suo «volto da travestito, mascella muscolosa e languidi occhi truccati sotto il cimiero»). Questa simbolica grossolana che stinge nel patologico è uno dei registri del libro, culminante in un piccolo dossier letterario in cui figurano tra gli altri un «collezionista ostinato» di relitti come Pablo Neruda – la sua poesia A una polena è appunto il trionfo del kitsch – e anche Niobe, la «maledetta» polena verde del Tamburo di latta (sarà stato Günter Grass il primo a contagiare la curiosità di Magris?). Ma «le figure di prua – scrive – hanno raramente ispirato grandi pagine». In una lirica di Juan Octavio Prenz, che riprende una saga popolare, gli occhi tolti alla polena ridanno la vista ai ciechi; sempre gli occhi incastonati, sottratti per gelosia, ispirano un racconto d’inverno di Karen Blixen, in cui la polena fatta scolpire da un capitano con le fattezze della moglie innesca un tragico triangolo…
Più che la letteratura, cui è dedicato appunto il capitolo conclusivo, la parte del leone la fanno i musei navali e della marineria di tutto il mondo. È lì che Magris ha incontrato nel corso degli anni le polene: Greenwich, Barcellona, Parigi, Anversa, Amburgo, Brema, Göteborg, Stoccolma, e poi l’America, Newport News, Williamsburg, Boston, San Francisco… E l’Italia? Ho lasciato volutamente per ultimo il Museo navale di La Spezia, la cui presenza nel libro ha fatto affiorare dal golfo remoto della mia infanzia il ricordo delle visite all’Arsenale militare sotto la guida paterna. Per numero e per qualità La Spezia vanta una delle collezioni di polene più importanti d’Europa, e qualcuna di esse ‘ha fatto’ a prua la spedizione dei Mille . Alla più rinomata, «la bellissima Atalanta» che Magris ha potuto ammirare de visu e che anche in foto esibisce una qualità ‘scultorea’ decisamente superiore alla media, è dedicato un racconto intriso di feticismo macabro. Essa venne per così dire rapita da un ufficiale tedesco nel 1944, che se la portò in albergo pochi giorni prima di suicidarsi. La grottesca vicenda ricorda un po’ l’andirivieni del cadavere imbalsamato di Evita Perón in un romanzo di Eloy Martínez, e mi ha riportato a un saggio di Maurizio Bettini letto quasi trent’anni fa, Il ritratto dell’amante, popolato di simulacri, feticci e sorprendenti storie greco-romane al confine tra vita e morte (Protesilao e Laodamia, Pigmalione e Galatea).
Ho citato Bettini, e in effetti chi si occupa di polene deve essere un po’ mitografo e un po’ antropologo. Sin dall’antichità la rappresentazione verbale e simbolica del mondo marittimo ha dato luogo a un sistema connotativo specifico, diciamo tra metafora e metonimia. Qualcosa del genere dev’essere accaduto, nei tempi moderni, anche per la parola «polena» la cui origine viene fatta risalire al francese «poulaine», dall’espressione «souliers à la poulaine»: gli stivaletti dei cavalieri polacchi di moda nel XIV e XV secolo, caratterizzati da una punta lunghissima rivolta all’indietro. Quando in Francia, intorno al secondo decennio del Seicento – epoca di grandi conflitti per la talassocrazia e di pompose esibizioni ingegneristico-decorative –, furono presentati a corte dei nuovi modelli di vascello che al posto di una prua aggettante e bassa presentavano un «tagliamare» più arrotondato, qualcuno sarcasticamente avrebbe tirato fuori lo stivaletto à la poulaine, la cui estremità ‘torna indietro’ (Pierangelo Campodonico).
Quanto all’invenzione della polena-statua (che ebbe il suo periodo d’oro tra Sei e Ottocento), tutto comincerebbe con l’occhio dipinto a scopo apotropaico sulle imbarcazioni antiche, ma più d’uno confonde le (moderne) figure di prua con le figure di poppa nell’epica greca e latina: il catalogo omerico delle navi, la storia degli Argonauti, Ovidio che racconta la metamorfosi virgiliana delle navi di Enea (in una recente edizione delle Metamorfosi le «puppes aduncae» che si mutano in volti diventano «prue adunche», forse il traduttore distratto aveva in testa le polene?). Scrive Magris: «L’occhio è l’uovo da cui usciranno le figure femminili protese a prua, i seni regali, le mani che cercano di velarli portando una rosa al petto, i volti composti, le labbra socchiuse…». Spesso prevale una fisiognomica marcata a tinte forti: mammelle opulente (pudicamente occultate però nei Paesi protestanti), capelli da baccanti, bocche carnose, occhi bistrati: gli occhi la cui funzione iconica era avvistare – e idealmente neutralizzare – i pericoli sempre in agguato della navigazione in alto mare.
Quello sguardo inespressivo da cassandre tragicamente inascoltate ispira a Magris – autore anni fa di un romanzo con polena in copertina, Alla cieca – squarci narrativi e maliziose abduzioni psicologiche. Da appassionato osservatore, non collezionista però (lo fu, e incallito, l’editore Ugo Mursia), deve aver inseguito a lungo questa straniata mitologia minore visitando musei e consultando libri, anche se non ha sentito il bisogno di compilare un regesto bibliografico. Quel che gli preme, stante la consueta esattezza storiografica e referenziale, è avvolgere il lettore pigiando sul pedale di una altrettanto nota vocazione a raccontare, anzi a ‘fantasticare’. E molte delle storie raccontate in stile vibrante sono anche il referto metanarrativo del suo stesso stordimento da polena.
Prima ci siamo soffermati sull’effetto kitsch suscitato dalle polene ‘viste da vicino’ (un po’ come l’albatros di Baudelaire?). Per la verità non tutte le statue sono uscite da mani rozze o modelli mediocri. Per le navi da guerra e le navi commerciali di rango ci si serviva anche di «scultori di figura», non solo di anonimi maestri d’ascia e intagliatori. La distinzione non è sfuggita a Piero Donati, che studiando la collezione del Museo navale spezzino ha riconosciuto la Ebe di Canova dietro all’elegante polena della fregata Bellona, varata intorno al 1827. È questo un filone promettente degli studi di arti decorative, che lo stesso Magris ha incrociato nel suo periplo. Si può citare qui Pierre Puget – partito dall’arsenale di Tolone per approdare ai cantieri del Re Sole –, o il padre di Thorvaldsen in Danimarca, o lo scultore svedese Johan Törnström che tra Sette e Ottocento lavorò per le navi della Corona… Un piccolo catalogo di intagliatori di razza che ci fa desiderare un Honour in sedicesimo dedicato ai ‘maestri’ delle polene.