Sciarpone viola che l’avvolge dal collo ai jeans sdruciti, camicia bianca aperta a sfidare il vento gelido di Parigi, Roman Polanski, 84 anni, i capelli brizzolati accuratamente arruffati, ha regalato quest’anno alla Cinémathèque, che da sempre lo coccola, bei momenti di conversazione e di cinema.

Già padrino della grande mostra del 2016, «De Méliès à la 3D», Polanski ha fatto spola più volte tra l’appartamento in Avenue Montaigne e la Cinémathèque, per presentare film della sua personale.

Non è mancata, all’affollatissima inaugurazione con Da una storia vera, tratto dal romanzo di Delphine de Vigan, in anteprima dopo gli applausi di Cannes, la prevedibile, pittoresca contestazione, sulla scia-Weinstein, di ‘Femen’ e femministe vocianti, armate di striscioni contro il regista, perseguitato da 40 anni dalla giustizia Usa per aver fatto sesso con una minorenne: approdato al proscenio per passaggi segreti, con la moglie e protagonista Emmanuelle Seigner e il cosceneggiatore Olivier Assayas, Polanski non ha tardato, con le sue parole semplici e dirette a conquistare l’intera platea, come avviene sempre negli «a tu per tu» con il pubblico, per esempio al Torino Film Festival di 9 anni fa, invitato da Nanni Moretti.

Conosciuto sul set di Caos calmo – dove nel finale c’è un bisbiglio muto, inquadrato da lontano, tra il protagonista e il temuto patron straniero, rinchiusi in auto in un dialogo impenetrabile –, era stato quel film a suggerire a Moretti nel 2008 l’evento-Polanski, con la rassegna di lungometraggi, gli splendidi corti realizzati negli anni della Scuola di Lodz, una scelta di film che lo vedono attore (come Una pura formalità di Giuseppe Tornatore) e la grande mostra fotografica al Museo del Cinema, integrata da un possente Castoro con un repertorio fotografico cui aveva contribuito lo stesso regista. Il quale, allora come oggi, è spesso presente alle sue proiezioni: dallo splendido Chinatown («ero molto attratto dai noir d’atmosfera di Raymond Chandler: ho cercato di crearne l’equivalente nel cinema») a Il pianista, che gli è valso l’Oscar nel 2002 («e di tutti i miei film è quello che preferisco»), a Il coltello nell’acqua, esordio-capolavoro nel ’62, che a Torino gli aveva fatto ritrovare il cosceneggiatore, anch’egli uscito da Lodz, Jerzy Skolimowski.

Polanski, che ruolo ha avuto la Scuola di Lodz nella sua formazione?

«Per me sono stati cinque anni di studio e di lavoro fondamentali. C’era l’obbligo di realizzare un film all’anno, dal terzo anno in poi. Gli effetti d’una scuola, come di ogni professione, non sono uguali per tutti: dipendono dalla predisposizione di ciascuno. Tanti sono usciti da Lodz senza aver imparato nulla, senza avere realizzato neanche mezzo film. Io mi son dato subito da fare. Prima del film di diploma, Deux hommes et une armoire, a un Festival di cinema sperimentale a Bruxelles ho proposto al direttore, che ha acconsentito, ma digrignando i denti – il regista ne fa il verso –, di realizzare e proporre in concorso il film. Che poi ha vinto».

Quella scuola è stata un miracolo  del comunismo in Polonia, o no ?

Fortunatamente Lenin aveva lasciato tra le sue molte sentenze: ’Tra tutte le arti, il cinema è quella fondamentale’. Aveva capito il peso politico che poteva avere un film. La Scuola di Lodz è figlia di quel ‘comandamento’. Lì il cinema era paradiso. Dopo i bruttissimi film tedeschi che ci avevano invaso, potevamo conoscere negli anni 50 il grande cinema : il Neorealismo, i film hollywoodiani, gli autori sovietici».

In Francia, dove si è presto trasferito, ha poi incrociato la Nouvelle Vague.

Trovo amatoriale la maggior parte dei suoi titoli. In un incontro tv con François Truffaut, che tra l’altro amava i miei film, l’avevo attaccato: ‘Mi sorprende sempre la vostra povertà tecnica’. Non tutti, per fortuna: Godard mi ha sempre impressionato per la ricerca tecnica e il montaggio. À bout de souffle è un film che ancora oggi rivedo con piacere. Ma tanti titoli della Nouvelle Vague, li guardi e non riesci a arrivare alla fine.

«Il coltello nell’acqua» è anche una continua peripezia tecnica, vero  ?

Lo deduce dalle foto di set, dove mi si vede aggrappato al cofano di un’auto su cui è piazzata la macchina da presa? Ebbene sì. Ho maneggiato come un acrobata la mia 35mm, l’ho portata a spalla e con una mano sola. E le assicuro che era pesante. È con quel macigno che ho girato l’intero film d’esordio, per la maggior parte a spalla. È stato faticoso. Ma non ha impedito al film di essere candidato all’Oscar.

Lo stesso anno in cui la nomination (e la vittoria) per il miglior film straniero è andata alla Dolce vita. Ne fu deluso?

Macché. Ho esultato anch’io quando a ritirare il premio è stato chiamato Federico Fellini. Avevo seguito la cerimonia, seduto per tutto il tempo accanto a lui e a Giulietta Masina: li vedevo emozionati, titubanti. Ho provato un senso d’orgoglio alla lettura del verdetto. In fin dei conti, il mio film di debutto s’era misurato con il capolavoro d’un Maestro.

C’è anche un altro Maestro nel suo percorso di regista: Stanley Kubrick.

Ho imparato molto da lui. Ho girato nel 1967 Per favore…non mordermi sul collo vicino al set di 2001: Odissea nello spazio. Quando avevo tempo, seguivo attentissimo le sue riprese. È stato lui a farmi scoprire Jack Nicholson, che ho poi ingaggiato in Chinatown, proiettandomi un film dove si rivela attore formidabile.

Per favore… non mordermi sul collo è un film che morde e vampirizza i suoi modelli.

Nelle prime intenzioni, è parodia degli horror della Hammer. Ma nella sua festa di colori, è debitore di film come il Robin Hood di Michael Curtiz : l’avevo visto ragazzino, a 12-14 anni, inebriandomi dell’avventura, del gioco, di quell’eroe che era Errol Flynn… Con i miei compagni l’avremo rivisto venti volte.

Della sua predilezione per espedienti tecnici propri del cinema, è prova «Le locataire», suo primo film francese, dopo gli Usa e «Chinatown».

Nel piano sequenza che percorre la facciata con titoli di testa, sono stato il primo a utilizzare in Francia un sistema poi sfruttatissimo dalla pubblicità. Il pubblico non sa che ho raddoppiato i piani del condominio costruito in studio grazie a uno specchio. Sono arrivato a 4 piani, ma ne avrei voluti 8, per rafforzare il senso di clausura, di isola. Oggi, con il digitale, la moltiplicazione dei piani si realizzerebbe in un clic. Lo specchio era un effetto speciale artigianale. Sono ancora oggi regista artigiano. Sono io a occuparmi direttamente di ogni singola inquadratura, dopo avere dato istruzione a attori e troupe sul da farsi.

In tempi di Guerre stellari, il suo cinema ha la sostanza antica e perduta della torta della nonna?

Già al primo Star Wars mi son reso conto che ci sono anche diktat commerciali dietro la mutazione ‘linguistica’ del cinema. Dobbiamo partire dal fatto che, in Usa, gli spot cadenzano un film ogni 5 minuti. Ebbene: assistevo a 5 minuti d’azione, mirabolante, seguiti da inutili, stupidi dialoghi che spiegavano quel che era appena successo o annunciavano quel che sarebbe avvenuto nei prossimi cinque minuti. Era il momento di interruzione-spot. Il racconto visivo ridotto a rosario da sgranare tra uno spot e l’altro.

L’eros è spesso sotteso ai suoi film: hanno mai suggerito remakes incandescenti?

Quando ho girato in Usa Rosemary’s Baby, a Los Angeles trionfava la moda dei film porno. Non proprio porno: li avevano battezzati Beaver Movies, film-castoro. Nemmeno un mese dopo l’uscita del mio titolo, c’era già un’infinità di film-fotocopia, con tante varianti erotiche: il primo s’intitolava Rosemary’s Beaver…