«Smettiamola con la politica! Per me oggi (e non solo) il cinema è (forse) più importante della politica, è cultura politica che nutre l’anima», mi disse anni fa Adoor Gopalakrishnan anni fa a Venezia in occasione di una intervista per la presentazione di uno dei suoi film-poesia. Il cineasta originario del Kerala, unico stato indiano oltre al West Bengala ad aver avuto da sempre un governo comunista con politiche avanzate sul piano sociale e culturale, è presente con un film al Cinema Ritrovato 2021: Elippathayam del 1981 che narra la storia di un uomo di mezza età, capofamiglia in un contesto matrilineare nell’era postfeudale. Gopalakrishnan ama raccontare storie del passato per dirigere la sua poesia visiva al presente (per chi lo vuole intendere), poesia plurilivellare e plurisignificativa. «Con Elippathayam ho cercato di rivolgere uno sguardo attento e crudele a un atteggiamento, uno stato d’animo. È un film sul cambiamento, un processo inevitabile e doloroso, e dato che la vittima è debole e impotente la sua resistenza al cambiamento è totale», leggiamo sul catalogo del festival nella scheda del film redatta dallo stesso regista che ha all’attivo parecchi titoli passati e premiati ai grandi festival internazionali.

UN ALTRO ESEMPIO della sezione dedicata al cinema d’autore indiano degli anni sessanta fino ai primi anni ottanta è Maya Darpan di Kumar Shahani del 1972. «Racconto contemporaneo sul feudalesimo e la sessualità femminile, Maya Darpan fu applaudito alla prima internazionale al festival di Locarno nel 1973 per coraggio e rigore», scrive col senno del poi il suo autore. «Il film deve l’uso innovativo del suono, del colore e del movimento alla mia infanzia trascorsa sulle rive dell’Indo, dove il rosso e l’indaco sono complementari alle sabbie dorate del deserto. Il suo coraggio proviene invece dai miei numi tutelari: Ritwik Ghatak, Robert Bresson, D.D. Kosambi, i grandi musicisti indiani e europei, i filosofi di ogni continente e i Sufi che credevano nella pura magia dell’enunciazione. Maya Darpan era un progetto praticamente impossibile. Girare un film a colori era una impresa molto ambiziosa e per procurarmi della pellicola Kodak dovetti impiegare più della metà del budget.»
La sezione intitolata Poeti ribelli e spiriti rivoluzionari: il Parallel Cinema indiano è a cura di Shivendra Singh Dungarpur, Omar Ahmed, e Cecilia Cenciarelli per la Cineteca di Bologna. Comprende opere realizzate per lo più tra il 1968 e il 1976 raccolte attorno al concetto di «cinema parallelo» per non affibbiargli nessuna delle etichette solite che lo vogliono o sperimentale o non convenzionale o semplicemente in opposizione al mainstream noto come Bollywood. Le sue radici affondano nel Manifesto del movimento per il nuovo cinema pubblicato nel 1968 dai due registi Mani Kaul e Mrinal Sen. Di quest’ultimo vediamo Bhuvan Shome del 1969, il cui straordinario incipit vede una cinepresa posizionata su un treno in corsa con l’obiettivo puntato sui binari che scorrono a velocità supersonica, mentre nell’off si percepiscono i suoni di quella modernità che irrompeva nell’India di quegli anni ancora abitata dalla grande tradizione: quello meccanico di una locomotiva a vapore e quello ripetitivo circolare di un classico raga indiano.

L’ESORDIO di Mani Kaul realizzato nello stesso anno, Uski Roti, si basa invece su un’opera letteraria, ma chi si aspetta una trasposizione classica avrà un bel vedere nello scoprire l’inventiva di un giovane regista che indaga «l’aspetto propriamente cinematografico» di un’operazione simile. Scrive Ashish Rajadhyaksha sul catalogo: «Gli attori tradussero una sceneggiatura rigorosamente annotata con una gestualità ridotta al minimo. I due registri dello spazio fisico e mentale di Balo (il personaggio protagonista) sono ripresi attraverso due diverse lenti: un grandangolare 28mm con un’elevata profondità di campo e un teleobiettivo 135mm che mantiene a fuoco solo una minima parte dell’inquadratura. Nel film questo schema viene gradualmente invertito, e il risultato è uno degli esempi di massimo controllo dell’immagine visti nel cinema indiano. L’uso dei volumi e degli spazi s’ispira alle grandi tele della pittrice modernista Amrita Sher-Gil, mentre la colonna sonora ricalca la frammentarietà visiva isolando singoli suoni. Il film, realizzato con il sostegno della Film Finance Corporation (ente istituito dallo stato indiano per concedere prestiti a basso interesse alle produzioni, nda), fu ferocemente attaccato dalla stampa popolare per essersi sbarazzato delle norme cinematografiche correnti e difeso con altrettanta veemenza dall’intellighenzia indiana più sensibile alle questioni estetiche». Ho citato questo lungo brano di testo relativo al film di Mani Kaul in quanto rispecchia ottimamente l’atmosfera politico-culturale dell’epoca, e non solo. Forse potrei aggiungere che ancora adesso si respira tale aria benché l’India sia ormai considerata una delle potenze mondiali.
Chi sente la necessità di esprimere qualcosa piuttosto che mettere in scena meccanicamente i noti musical bollywoodiani sapeva fare di necessità virtù. Così Shyam Benegal per il suo Bhumika del 1977, basato sull’autobiografia della «signora» del teatro e del cinema in lingua marathi (una delle tante lingue parlate nel subcontinente indiano), essendo rimasto a corto di pellicola per questioni finanziarie, ha subito trasformato il «problema» in «soluzione» sul piano stilistico narrativo: il presente vissuto dalla protagonista Usha è a colori, il suo passato scorre con immagini in bianco e nero, dove «passato» sta per sfruttamento sessuale in nome della «Devadasi», una forma di prostituzione sacra praticata nell’antichità.
«Molte delle opere in lingua kannada realizzate durante quella stagione di rinnovamento ruotano attorno all’ingiustizia commessa contro gli individui nel nome della casta e della religione», scrive Girish Kasaravalli sul catalogo a proposito del suo Gatashraddha realizzato nel 1977, e continua nell’indicare le forze motrici del movimento del cosiddetto cinema parallelo: le idee del partito socialista indiano e il filosofo politico Ram Manohar Lohia, figura potente all’epoca, oltre a essere un socialista gandhiano che aveva – come tanti altri – ipotizzato che «nella società indiana il sistema gerarchico delle caste fosse soffocante quanto la struttura di classe». Poi il regista continua nel precisare come nel film avesse cercato di «tessere assieme queste idee, prospettive e preoccupazioni all’interno di una storia profondamente umana, nella speranza che avesse sugli spettatori una presa emotiva e intellettuale».