Se c’è un tratto del tempo che può rappresentare bene l’atroce insensatezza della guerra è quello che va dal 1 luglio al 18 novembre del 1916. Sono i 141 giorni della cosiddetta battaglia della Somme, nella Francia settentrionale, uno dei più sanguinosi conflitti a fuoco della Grande Guerra e, più in generale, della storia. La contabilità di tale immane mattanza assomma a oltre un milione di vittime: circa 620.000 tra gli Alleati anglo-francesi e più o meno 450.000 tra le file tedesche, con una «media» di quasi 7.600 morti al giorno. Sul piano militare, fra offensive, controffensive, lunghi stalli in trincea, scontri a colpi di mitraglia e inopinati assalti corpo a corpo o a botte di gas, granate e mezzi corazzati, quei quattro mesi e mezzo di carneficina si risolsero in un nulla di fatto o quasi: la conquista da parte alleata di sette-otto chilometri di terreno in una corta striscia di terra tagliata in due dal fiume Somme. A farne un conteggio per così dire biometrico, meno di un centimetro di terra espugnata pro patria in cambio di una vita…
Ancora, come sempre, quando a parlare sono le sragioni delle armi, tanto rumore (tanto dolore e tanta cieca ottusità) per nulla, verrebbe da chiosare. Se non fosse, nel riflesso dell’oggi, che la conoscenza di quanto è accaduto sui fronti della Somme – dove, a volte, i parapetti delle trincee erano costruiti con un misto di sacchetti di sabbia e cadaveri – ha il merito, se non altro, di farci tornare a provare un contraccolpo solidale: il sentimento di fraternità che ridesta la lettura delle testimonianze di chi si è interrogato sul trauma, e in particolare di chi dall’esperienza dell’orrore vissuto sul «fronte occidentale», accanto e oltre a quell’orrore sia riuscito a restituirci poesia, che è come dire il succo distillato di una parola umana nonostante tutto in cerca di significato.

Tre degli autori raccolti da Raoul Precht in questo Sulle rovine d’Europa Poeti tedeschi e francesi della Grande Guerra, appena uscito per le Edizioni Ares (con una breve prefazione di Filippo Tuena, pp. 352, € 20,00), hanno partecipato a quell’ecatombe. Si tratta del poeta operaio Gerrit Engelke e di Alfred Lichtenstein dalla parte tedesca, e di Jean Arbousset da quella francese. Altri due francesi destinati a entrare nel canone della poesia europea del Novecento, Paul Éluard e Jean Cocteau, la Somme la vissero e patirono, invece, dalle immediate retrovie, nel loro ruolo temporaneo di infermieri in un ospedale mobile d’evacuazione. Barelliere sul campo fu anche il futuro «papa» del Surrealismo, André Breton, che in quegli stessi giorni stava tribolando a trecento chilometri di distanza, nel tritacarne da 700.000 morti e passa di Verdun.

Forse non esiste nulla di più poetico delle mescolanze eterogenee. Sia vera o no, quest’asserzione definisce una parte del fascino delle antologie. Il puro accostamento di alcuni testi – con i loro singolari universi linguistici, frutti di attitudini stilistiche, sensibilità, precondizioni culturali e connotazioni ideologiche le più diverse – può dar loro un’efficacia che quegli stessi testi isolati potrebbero non avere. Del resto, per rimanere nello specifico: trascegliere dal mare magnum delle scritture a vocazione letteraria pochi esemplari poetici rappresentativi di un’esperienza esistenziale estrema ma in qualche modo comune, quale fu quella dei tanti soldati in massima parte volontari e/o interventisti che si riconobbero carne da macello sulla Marna, sulla Somme, appunto, o a Verdun, comporta di per sé il rischio di deformarli e avviarli lungo false piste «postmemoriali». Tuttavia, come in questo caso, tale deformazione può essere persino virtuosa.

L’antologia di Precht include in versione bilingue poesie e stralci tratti dalle opere in versi di ventisei poeti, divisi in modo equanime fra francesi e tedeschi. I poeti in questione non hanno scritto ciò che hanno scritto con lo spirito da revival di tanta produzione romanzesca a venire, ma come parte integrante, perlopiù in presa diretta, di un’esperienza moralmente risentita, che ha coinciso con un cruciale, bruciante apprendistato umano, voglioso di riassumersi in un messaggio letterario. Il libraio e piccolo editore, ma in guerra barelliere, Peter Baum apre l’eterogenea schiera; il mancato premio Nobel belga Émile Verhaeren la chiude, quasi trecento pagine dopo, col cupo piglio di un vate patriottardo che, come Pierre Jean Jouve e Yvan Goll, la guerra l’ha sofferta su un piano soltanto «intellettuale» – e la cosa si sente. Sia chiaro: prima delle tirate retoriche di Verhaeren che chiudono il volume, di poesia qui ce n’è parecchia, se consideriamo che i testi raccolti e ben tradotti da Precht sono a firma di alcuni dei più notevoli poeti «di guerra» di lingua franco-tedesca e che fra di essi spiccano autentiche perle, «concepite» da chi in guerra c’è stato per davvero e, in qualche caso, in modo immedicabile: su tutte, Grodek, dell’etereo, tragicissimo Georg Trakl. Oltre al salisburghese Trakl, fra i tredici germanofoni inseriti da Precht nella sua crestomazia si trovano nove tedeschi di «germanica stirpe», un ceco, uno svizzero e un prussiano-polacco; mentre fra i non francesi che scrivono in francese allignano un secondo svizzero, Blaise Cendrars, e, purtroppo, anche un fiammingo, il trombonesco Verhaeren del quale s’è accennato.

Il tutto restituisce l’immagine di un coro fatto di solisti, che si sono dati il compito, ciascuno a modo proprio, di dar voce alle ombre mostruose e purulente della memoria bellica. Anche per questo il libro ha un suo perché, facendoci scoprire en passant una piccola legione di poeti «sommersi», malnoti o francamente ancora semi-sconosciuti, quantomeno in Italia. Fra questi spiccano due promesse d.o.c. della poesia francese, Albert-Paul Granier e, soprattutto, Marc de Larreguy de Civrieux, entrambi morti a Verdun. Affini, se non altro, per l’ingenuità, e la voglia di dire e di dirsi che li animava, per grazia di Precht ora quei poeti danno corpo a un suggestivo ensemble polistilistico e multinazionale, in grado di veicolare un sentimento ardente dello shock psicologico, politico e metafisico causato dalla sciagurata strage fratricida che mise in ginocchio l’Europa fra il 1914 e il 1918 e che, per un po’, ne incrinò addirittura l’idea. Anche se perfino qui resiste e, anzi, qua e là paradossalmente si riafferma, la visione di un’Europa unita e pacificata. Come accade nei versi pieni di speranza di Engelke: «Se sei stato un nemico onorevole, sarai un onorevole amico! / Ecco la mia mano, per formare tutti insieme un cerchio, / Mano nella mano perché il nuovo giorno ci trovi autentici e umani».

Nel complesso il lavoro del compilatore/curatore di questo volume risulta convincente. Le scelte e le esaurienti schede bio-bibliografiche che introducono gli autori sono fatte con un certo acume. Egli dà prova di gusto e di un sobrio orientamento panoramico anche nella selezione stilisticamente inclusiva dei versi. Che non di rado, pur nella smaccata discontinuità estetica degli esiti, rilanciano al lettore lampi di profonda umanità. La ragione è evidente di per sé: l’umano dell’uomo non muore mai, neanche mentre gli esseri umani s’incapricciano a uccidersi l’un l’altro, «facendo storia» di una delle forme più stolte della sua abiura, e la poesia sa restituirne la scintilla.