Colombia tiene escritoras: così si intitolava un manifesto firmato nel 2017 da un buon numero di scrittrici, indignate per l’assenza di nomi femminili tra quelli degli autori invitati dal governo del loro paese a una manifestazione di grande prestigio. Alla protesta seguirono polemiche furibonde e non inutili, visto che la Biblioteca Nacional de Colombia, in collaborazione con alcune case editrici indipendenti, nel 2022 ha dato il via alla Biblioteca de Escritoras Colombianas, che, oltre a valorizzare le opere di autrici nate nel corso degli ultimi tre secoli, ha contribuito a definire genealogie utili alla lettura di un presente sempre più declinato al femminile.

A CONFERMA DEL FATTO che la letteratura colombiana non è «un club per soli uomini», dopo i recenti La cagna di Pilar Quintana (La nave di Teseo, 2022) e Assedio animale di Valeria Londoño (Alessandro Polidoro, 2022), ci viene ora proposto da gran vía Creature della foresta (pp. 128, euro 13,50; l’ottima traduttrice è Monica Besana), di Laura Ortiz Gómez, nata a Bogotà nel 1986, che con questo suo libro d’esordio si è guadagnata il Premio Nazionale di narrativa Elisa Mujica, importante e meritatissimo.

OGGI L’AUTRICE risiede a Buenos Aires (un espatrio che, dice, le ha consentito di scrivere del suo paese da una giusta distanza), ma per anni ha viaggiato nelle più remote zone della Colombia su incarico della Red Nacional de Bibliotecas, per diffondere la lettura nelle comunità contadine ma anche per avvicinarsi alla ricchezza di una vera e propria letteratura orale, custodita e tramandata da anziani e donne. Ed è questo prezioso flusso narrativo (ascoltato con l’attenzione di chi vuole assorbire non solo storie e figure, ma anche le peculiarità del linguaggio) che vediamo riaffiorare nei suoi racconti, ambientati tra villaggi, foreste, campi, cimiteri «non ufficiali» in cui riposano morti sconosciuti, trascinati a valle dai fiumi.

Ogni storia è un breve ritratto della Colombia rurale, devastata dal narcotraffico, da un conflitto armato mai davvero concluso e da memorie oscure come quella del massacro di Ciénaga, che nel 1928 mise fine allo sciopero contro la United Fruit e venne poi evocato da García Márquez in Cent’anni di solitudine e da Álvaro Cepeda Samudio in La casa grande.

E ANCHE ORTIZ GÓMEZ sembra alludere a questo ineludibile episodio in «Aíta, la morte», il primo di otto racconti imperniati su famiglie in lutto, corpi violati e torturati, desaparecidos, povertà e soprusi, temi costantemente presenti nella letteratura colombiana e confluiti in passato nel cosiddetto «romanzo della violenza». Una violenza che si è insediata anche nelle opere degli autori più giovani e che rischia a volte di diventare una risorsa narrativa a effetto, fin troppo facile e abusata.

Laura Ortiz Gómez, però, sceglie di non esibirla in tutta la sua crudezza, di indagare piuttosto sulle tracce che lascia e filtrarle abilmente attraverso simboli e metafore. I racconti si fondano su allusioni e sensazioni, dettagli quotidiani e fatti minimi, narrati con uno squisito variare di ritmi e toni, quasi fossero scritti per una lettura ad alta voce: in «Tigre americano: Panthera Onca», per esempio, l’occupazione militare si incrocia con la vergogna di una ragazzina che bagna il letto ogni notte e con le astuzie di una comunità decisa a non arrendersi. In «L’ultimo Pibe Valderrama», la disgregazione familiare si fonde con uno strepitoso resoconto di Colombia-Inghilterra durante i mondiali del 1998; l’esistenza sbandata di un orfano cui viene richiesto un campione di Dna per identificare le ossa della madre, giustiziata dai paramilitari, è invece illuminata dalla nascita di un vitellino in «Parto di mucca»…

SONO STORIE DEVOTE alla terra e alle culture contadine, poetiche e insieme politiche, che non omettono l’orrore, ma gli affiancano la ricerca di risposte, l’ostinazione a sopravvivere, i tentativi di cambiare il proprio destino, il rifiuto del ruolo di vittima. Tenacia, umorismo (a volte nerissimo), rabbia, ironia, ansia di libertà, sono le caratteristiche di personaggi in movimento, oppressi ed estenuati (non a caso il titolo originale è Sofoco, che indica la mancanza d’aria o il dispiacere, ma anche una sensazione di calore, una vampata), eppure desideranti e sensuali.

Voci emarginate e dimenticate, ma piene di slancio vitale, emergono in ciascun racconto, sfuggendo felicemente alla trappola del colore locale e dell’esotismo, come a quella ormai logora del realismo magico, e disegnano una sorta di viaggio attraverso una natura indomabile e varia (cordigliere, giungle, coste, fiumi), popolata da significative presenze animali e accompagnata da una costante colonna sonora di fruscii, acque, vento, cui si aggiungono i canti minacciosi dei soldati in marcia, i ritmi locali, le canzoni di protesta che il padre dell’autrice le faceva ascoltare da bambina. E musicali sono anche le frasi brevi, sonore e immaginose che trasformano l’oralità in letteratura e generano immagini intense e suggestive. Sì, Colombia tiene escritoras, e Laura Ortiz Gómez è indubbiamente una di loro.